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martedì 10 dicembre 2019

STORIE DI SAN PAOLO

A. Speziale, “Storie di san Paolo nella cattedrale di Caltanissetta”, Incontri– Rotary Club Caltanissetta, febbraio 2018, pagg. 15-17



“Negli spazi intermedi fra le lunette son da una banda sette storie di S. Pietro dalla sua vocazione al martirio, ed altrettante di S. Paolo dall’altra, dalla caduta da cavallo presso Damasco sino alla sua decapitazione. Dipinture queste, che per bellezza del comporre e del colorire son veramente degne del sovrano maestro”. Così Gioacchino Di Marzo nel 1912, nel suo scritto Guglielmo Borremans di Anversa, pittore fiammingo in Sicilia del secolo XVIII, descrive le storie di San Pietro e San Paolo affrescate nella cattedrale di Caltanissetta.
Per apprezzare le storie bisogna non lasciarsi distrarre dalla ricca e mossa decorazione dei cinque ovali centrali della volta affrescata dal Borremans e concentrarsi sullo spazio sotto, là dove, ad intervallare i santi e le sante del territorio, sette riquadri sulla sinistra raccontano le vicende dei due santi.
Non a caso S. Pietro e S. Paolo si affrontano in questi spazi nella parte bassa della volta: fondano la Chiesa, con una predicazione che è primizia (rudimentum) della fede cristiana, come recita la colletta alla vigilia del giorno della loro festa. E il prefazio scolpisce i rispettivi ruoli: “Pietro, che per primo confessò la fede nel Cristo, Paolo, che illuminò le profondità del mistero; il pescatore di Galilea, che costituì la prima comunità con i giusti di Israele, il maestro e dottore, che annunziò la salvezza a tutte le genti. Così, con diversi doni, hanno edificato l'unica Chiesa, e associati nella venerazione del popolo cristiano condividono la stessa corona di gloria”.
È per questa unità nella diversità che Agostino Riva, il parroco della cattedrale nel 1720, li volle affrescati dal Borremans ai lati dei riquadri che raccontano di una chiesa trionfante che poggia su chi ha gettato le fondamenta della storia della salvezza. Là dove si concentrano le forze che sorreggono la volta troviamo Pietro e Paolo a sostenerla con il loro speciale percorso di peccato e di redenzione.
A collaborare con il Borremans fu l’architetto Francesco Firrigno a cui si devono le soluzioni ardite nella partizione dello spazio in riquadri e cornici differenti tra loro, che contengono le scene figurate a mo’ di quinta scenica, con l’aggiunta di motivi vegetali, come foglie e ghirlande.
Chi entra dal portone principale deve ruotare il capo a sinistra per cogliere il primo episodio della vita di S. Paolo: la caduta da cavallo che segna la sua conversione (fig. 1[1]). Questo affresco, purtroppo, è stato danneggiato dai bombardamenti che nell’estate del ’43 fecero crollare parte della volta in corrispondenza della facciata. La ricostruzione fu affidata nel 1954 a Nicola Arduino, un pittore di Grugliasco esperto in affresco, da Armando Dillon, allora Soprintendente ai Monumenti della Sicilia Occidentale. L’Arduino affrescò le scene con San Paolo che cade da cavallo, San Paolo calato dalle mura, San Paolo in catene. Originali del Borremans rimangono, invece San Paolo che predica all’Areopago, San Paolo a Malta e a Roma, la decapitazione di S. Paolo.
L’Arduino si documentò prima di ricostruire gli affreschi del Borremans che non restaurò filologicamente ma cercò di rifare adeguandosi quanto più possibile al modello, pur senza quell’estro esuberante che caratterizzava il pittore fiammingo, sempre più ardito negli accostamenti cromatici e nelle composizioni figurate.
La vocazione è narrata seguendo gli Atti degli Apostoli al capitolo 9: “All’improvviso lo avvolse una luce dal cielo e cadendo a terra udì una voce che gli diceva: “Saulo, Saulo, perché mi perseguiti?”. Nella parte bassa Saulo, riverso a terra, volge lo sguardo al raggio di luce che viene dall’alto e squarcia le nubi, in una scena che è strutturata a più piani che si intersecano in obliquo: l’uomo riverso, la prepotente fisicità del cavallo che copre i volti in secondo piano di coloro che accompagnano il santo, gli stendardi romani e le mura di Damasco, le nubi e la luce.
La presenza del cavallo, non attestata nelle Sacre Scritture, è costante nell’iconografia del Santo, con il cavallo visto da retro, come avviene anche nella Cappella Paolina affrescata da Michelangelo, o nella tela di Caravaggio di Santa Maria del Popolo dove la posa dell’animale è più naturale rispetto alla contorsione forzata a cui ricorre il Borremans. Non è escluso che nella rappresentazione dell’animale ci sia il riflesso esatto degli studi che il pittore fiammingo aveva condotto per l’illustrazione della Pietra paragone de’ cavalieri[2] per il duca di Pescolanciano durante il suo soggiorno a Napoli.
Il confronto più stringente per la posa del Santo, con una gamba sotto la pancia del cavallo coperto da un drappo rosso, è con dipinti di Rubens con lo stesso tema, come una “Conversione di Saulo” conservata nella Casa-Museo del pittore ad Anversa o un’altra variante della Courtauld Gallery di Londra, entrambe datate al primo decennio del Seicento.
Il modulo compositivo, come accade anche per la chiamata di Pietro, sembra inoltre ripercorrere “La conversione di Saul” di Luca Giordano, un dipinto databile al 1680, conservato nella quadreria del Casino dell’Aurora Pallavicini a Roma, questo con un’orchestrazione più complessa rispetto alla nostra e certamente più drammatica. Il confronto tuttavia è reso possibile grazie alla postura di Saul e del cavallo che taglia la scena e che rivela come Borremans, probabilmente, nell’originale poi ripreso da Arduino, si fosse ispirato a modelli compositivi che aveva acquisito ad Anversa e a Napoli prima del suo definitivo trasferimento a Palermo.
Sullo sfondo della caduta si stagliano le mura di una città turrita, poste in prospettiva ad accentuare l’obliquità del taglio: è Damasco dove Paolo ”rimase tre giorni senza vedere e senza prendere né cibo né bevanda”.
Nella seconda scena (fig. 2) San Paolo (la fonte è sempre il capitolo 9 degli Atti degli Apostoli) viene calato giù dalle mura di Damasco dentro ad una cesta, per sfuggire al complotto dei Giudei che tramavano contro di lui nell’intenzione di ucciderlo. La cesta, in realtà, è diventata un lenzuolo con il quale, in posa assai stravagante, il Santo viene calato giù, ma sembra levitare verso l’alto piuttosto che sentire la forza di gravità. È una di quelle pose “a capriccio” che rendevano così peculiare l’arte del Borremans e che Arduino ha ripreso, come l’anfiteatro nello sfondo per rendere lo spazio della città antica dietro i beccatelli delle mura di Damasco.
Un particolare curioso è certamente legato alla torre: se nella scena della caduta da cavallo sono presenti i merli, in questa non ve ne è traccia. I nostri affreschi non hanno, infatti, sfondi urbani o paesaggi naturali curati nel dettaglio, ma posti soltanto a decoro della scena, a documentare una stagione artistica in cui l’effetto di sfondamento predomina sul realismo dello sfondo.
Nel terzo riquadro (fig. 3), sempre opera dell’Arduino, Paolo è in ceppi dinanzi ad un uomo togato e con eleganti calzari: potrebbe essere il governatore Felice (Atti, cap. 24), Festo (Atti, cap. 25) o più probabilmente il re Agrippa (Atti, cap. 26), come dimostra la presenza nella mano sinistra dello scettro, presso i quali fu costretto a difendersi dopo essere stato messo in catene a seguito di una sommossa scoppiata a Gerusalemme. È una scena di taglio dialogico: a Paolo che parla fa da contraltare l’autorità romana seduta su un trono di taglio barocco, posto su un alto basamento a gradini collocato in prospettiva. Si scorge un edificio tardo-rinascimentale o seicentesco sullo sfondo che nulla ha a che vedere con le austere architetture romane, mentre la colonna scanalata alle spalle dell’uomo ha un drappo alla sommità, secondo il gusto per il teatro ereditato dalla cultura barocca. La costruzione della prospettiva e il punto di vista collocato in basso rendono Paolo monumentale nel suo piglio oratorio, tanto che sulla sinistra viene collocato a bilanciare la scena un vaso con un drappo.
Nella quarta scena (fig. 4), opera del Borremans, San Paolo è intento a predicare: tradizionalmente si pensa che sia il momento in cui, giunto ad Atene, si sia recato sull’Areopago per annunciare Cristo a quegli uomini che “non avevano passatempo più gradito che parlare e sentir parlare” (Atti, cap. 17). Ricompaiono i colori smaglianti del fiammingo, a volte anche poco naturalistici ma sempre coinvolgenti. La scena si distingue dalle precedenti perché affollata di personaggi, tutti caratterizzati da abbigliamento contemporaneo e cappelli di ogni foggia: toghe, maniche rigonfie e a sbuffo, mazzocchi e berrette. Il personaggio sulla sinistra che volge le spalle allo spettatore ha anche la veste di tessuto damascato. Ma quello che emerge maggiormente è, sulla destra, un uomo abbigliato come fosse un’autorità con un berretto scarlatto che tanto somiglia al camauro papale, ma senza ermellino, che inforca un vistoso paio di occhiali a pince-nez.  Nell’agitazione della scena il Borremans ha voluto distinguere questo dotto con l’aria sdegnata, volendolo caratterizzare come un sacerdote, forse, e al contempo uno studioso. I sei personaggi che circondano Paolo, che incede dinamicamente ad indicare l’energia della sua predicazione, recano rotoli e libri in mano e si mostrano agitati e sdegnosi nei confronti della sua predicazione. È forse la scena meglio riuscita, certamente la più vivace, quella che mostra quell’impasto dei colori “a capriccio” e “differente dal vero”, quelle tinte “manierose, proprie dello stile fiammengo, ed improprie alla verità”, caratteristiche che sottolinea padre Fedele da S. Biagio nei suoi Dialoghi familiari sopra la pittura difesa ed esaltata dal p. Fedele da San Biagio pittore cappuccino col sigavvocato dPio Onorato (Palermo 1788).
Nel quinto riquadro (fig. 5) il Borremans si ispira al ventottesimo capitolo degli Atti, là dove si narra che Paolo, sbarcato fortunosamente a Malta in seguito ad una tempesta, fu accolto dagli indigeni dell’isola, in anacronistici calzoni sulla sinistra della scena, che per scaldarlo fecero un falò. Lì una serpe, svegliata dal calore, lo morse ad una mano ma egli non ne fu avvelenato e la scrollò semplicemente dal dito. Jacopo da Varagine nella “Leggenda aurea” racconta che il fatto avvenne a Mitilene, sostenendo che lì la famiglia di colui che lo ospitava fosse rimasta per sempre immune dal morso dei serpenti. In realtà in Sicilia esiste un culto speciale per San Paolo come guaritore dal morso di serpenti. tant’è vero che nel passato coloro che nascevano il 25 gennaio, data della conversione sulla via di Damasco, potevano divenire “ciarauli”, ossia capaci, secondo le narrazioni del Pitrè, di maneggiare i serpenti e di guarire i loro morsi.
Anche questa scena è dinamica ed affollata, collocata in uno spazio naturale roccioso, nel quale i personaggi si muovono con eleganza ed espressività.
Nel sesto riquadro (fig. 6), un ovale rotondo San Paolo in catene viene trascinato dai soldati (con le armature di foggia barocca, con l’evidente anacronismo a cui il pittore ci ha abituati), mentre un uomo si inginocchia al suo passaggio. Probabilmente il riferimento biblico è all’ultimo capitolo degli Atti, il ventottesimo, quando Paolo giunge a Roma in catene e viene salutato dai fratelli al Foro di Appio e alle Tre Taverne, prima di comparire dinanzi all’imperatore al quale si era appellato.
Anche qui la scena è costruita dinamicamente per l’affollarsi dei personaggi (ben otto), per il variare delle fogge dei vestiti e degli elmi, per una lancia che divide lo spazio in due in obliquo. Le pose sono eleganti, pur nella concitazione, sottolineate dalle movenze delle mani che sono lunghe e affusolate, secondo quell’eleganza compositiva che è la cifra espressiva del Borremans.
Il settimo riquadro (fig. 7) è mistilineo e racconta della decapitazione del Santo sulla via Ostiense, sotto il regno di Nerone, così come viene narrato da Eusebio e San Girolamo, il quale afferma che Paolo fu decapitato nello stesso giorno ed anno in cui Pietro fu crocifisso.  Il modulo compositivo della decollazione ha un preciso modello, infatti la posizione del carnefice è identica alla “Decollazione di San Paolo” (1158-1559) di Taddeo Zuccari nella cappella di San Paolo della chiesa di San Marcello al Corso. Potrebbe essere questa l’ulteriore prova di un passaggio del Borremans a Roma[3].  
Lasciando la centralità della scena al Santo orante, illuminato da un fascio di luce che viene dall’alto, quasi a chiudere la narrazione avviata sulla via di Damasco, il Borremans nella nudità del carnefice amplifica la crudezza del gesto di sollevare la spada per recidere il capo, dinanzi al soldato in ricca armatura sulla sinistra e a personaggi oranti sulla destra. La scena è ambientata in un paesaggio naturale (la via Ostiense) ed è strutturata su più piani nei quali si avvicendano le figure che fanno da sfondo, che sembrano progressivamente sbiadire in profondità.
Il capo sembra qui essere protagonista della scena quel capo che è protagonista del dittico trascritto a San Pietro in Vincoli “Laetus procubuit Paulus cervice secanda, cui caput est Christus despicit ipse suum”. Il Santo non teme che gli venga recisa la testa perché riconosce in Cristo il centro della sua vita, al punto da provare disprezzo per la propria.
Con questa scena, la più drammatica delle sette, il Borremans chiude la storia del Santo, che tuttavia è solo un punto di svolta per i trionfi del registro successivo. Non a caso nella parete di fondo della cattedrale, dove l’architetto Ferrigno aveva creato il suo capolavoro e il Borremans aveva dipinto l’Immacolata in gloria, incontriamo Paolo ai piedi della Vergine, con la spada a due tagli, a simboleggiare la parola di Dio che consente all’uomo di distinguere il bene e il male.
La conclusione della vicenda terrena del Santo, dunque, non è segnata dal martirio ma dal trionfo che attende coloro che verso Cristo, in corrispondenza dell’altare, tengono fisso il loro sguardo.
Aurelia Speziale


[1] Tutte le immagini sono tratte dal volume di AAVV Il Restauro della Cattedrale di Caltanissetta, Editore Salvatore Sciascia, Caltanissetta 2001
[2] AAVV, Per Citti Siracusano. Studi sulla pittura del Settecento in Sicilia. Magika, Messina 2012pp. 39-43 e 51-56.
[3] F. ABBATE, Storia dell’arte nell’Italia meridionale. Il mezzogiorno austriaco e borbonico, Donzelli Roma 2009, p. 621

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