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martedì 10 dicembre 2019

STORIE DI SAN PAOLO

A. Speziale, “Storie di san Paolo nella cattedrale di Caltanissetta”, Incontri– Rotary Club Caltanissetta, febbraio 2018, pagg. 15-17



“Negli spazi intermedi fra le lunette son da una banda sette storie di S. Pietro dalla sua vocazione al martirio, ed altrettante di S. Paolo dall’altra, dalla caduta da cavallo presso Damasco sino alla sua decapitazione. Dipinture queste, che per bellezza del comporre e del colorire son veramente degne del sovrano maestro”. Così Gioacchino Di Marzo nel 1912, nel suo scritto Guglielmo Borremans di Anversa, pittore fiammingo in Sicilia del secolo XVIII, descrive le storie di San Pietro e San Paolo affrescate nella cattedrale di Caltanissetta.
Per apprezzare le storie bisogna non lasciarsi distrarre dalla ricca e mossa decorazione dei cinque ovali centrali della volta affrescata dal Borremans e concentrarsi sullo spazio sotto, là dove, ad intervallare i santi e le sante del territorio, sette riquadri sulla sinistra raccontano le vicende dei due santi.
Non a caso S. Pietro e S. Paolo si affrontano in questi spazi nella parte bassa della volta: fondano la Chiesa, con una predicazione che è primizia (rudimentum) della fede cristiana, come recita la colletta alla vigilia del giorno della loro festa. E il prefazio scolpisce i rispettivi ruoli: “Pietro, che per primo confessò la fede nel Cristo, Paolo, che illuminò le profondità del mistero; il pescatore di Galilea, che costituì la prima comunità con i giusti di Israele, il maestro e dottore, che annunziò la salvezza a tutte le genti. Così, con diversi doni, hanno edificato l'unica Chiesa, e associati nella venerazione del popolo cristiano condividono la stessa corona di gloria”.
È per questa unità nella diversità che Agostino Riva, il parroco della cattedrale nel 1720, li volle affrescati dal Borremans ai lati dei riquadri che raccontano di una chiesa trionfante che poggia su chi ha gettato le fondamenta della storia della salvezza. Là dove si concentrano le forze che sorreggono la volta troviamo Pietro e Paolo a sostenerla con il loro speciale percorso di peccato e di redenzione.
A collaborare con il Borremans fu l’architetto Francesco Firrigno a cui si devono le soluzioni ardite nella partizione dello spazio in riquadri e cornici differenti tra loro, che contengono le scene figurate a mo’ di quinta scenica, con l’aggiunta di motivi vegetali, come foglie e ghirlande.
Chi entra dal portone principale deve ruotare il capo a sinistra per cogliere il primo episodio della vita di S. Paolo: la caduta da cavallo che segna la sua conversione (fig. 1[1]). Questo affresco, purtroppo, è stato danneggiato dai bombardamenti che nell’estate del ’43 fecero crollare parte della volta in corrispondenza della facciata. La ricostruzione fu affidata nel 1954 a Nicola Arduino, un pittore di Grugliasco esperto in affresco, da Armando Dillon, allora Soprintendente ai Monumenti della Sicilia Occidentale. L’Arduino affrescò le scene con San Paolo che cade da cavallo, San Paolo calato dalle mura, San Paolo in catene. Originali del Borremans rimangono, invece San Paolo che predica all’Areopago, San Paolo a Malta e a Roma, la decapitazione di S. Paolo.
L’Arduino si documentò prima di ricostruire gli affreschi del Borremans che non restaurò filologicamente ma cercò di rifare adeguandosi quanto più possibile al modello, pur senza quell’estro esuberante che caratterizzava il pittore fiammingo, sempre più ardito negli accostamenti cromatici e nelle composizioni figurate.
La vocazione è narrata seguendo gli Atti degli Apostoli al capitolo 9: “All’improvviso lo avvolse una luce dal cielo e cadendo a terra udì una voce che gli diceva: “Saulo, Saulo, perché mi perseguiti?”. Nella parte bassa Saulo, riverso a terra, volge lo sguardo al raggio di luce che viene dall’alto e squarcia le nubi, in una scena che è strutturata a più piani che si intersecano in obliquo: l’uomo riverso, la prepotente fisicità del cavallo che copre i volti in secondo piano di coloro che accompagnano il santo, gli stendardi romani e le mura di Damasco, le nubi e la luce.
La presenza del cavallo, non attestata nelle Sacre Scritture, è costante nell’iconografia del Santo, con il cavallo visto da retro, come avviene anche nella Cappella Paolina affrescata da Michelangelo, o nella tela di Caravaggio di Santa Maria del Popolo dove la posa dell’animale è più naturale rispetto alla contorsione forzata a cui ricorre il Borremans. Non è escluso che nella rappresentazione dell’animale ci sia il riflesso esatto degli studi che il pittore fiammingo aveva condotto per l’illustrazione della Pietra paragone de’ cavalieri[2] per il duca di Pescolanciano durante il suo soggiorno a Napoli.
Il confronto più stringente per la posa del Santo, con una gamba sotto la pancia del cavallo coperto da un drappo rosso, è con dipinti di Rubens con lo stesso tema, come una “Conversione di Saulo” conservata nella Casa-Museo del pittore ad Anversa o un’altra variante della Courtauld Gallery di Londra, entrambe datate al primo decennio del Seicento.
Il modulo compositivo, come accade anche per la chiamata di Pietro, sembra inoltre ripercorrere “La conversione di Saul” di Luca Giordano, un dipinto databile al 1680, conservato nella quadreria del Casino dell’Aurora Pallavicini a Roma, questo con un’orchestrazione più complessa rispetto alla nostra e certamente più drammatica. Il confronto tuttavia è reso possibile grazie alla postura di Saul e del cavallo che taglia la scena e che rivela come Borremans, probabilmente, nell’originale poi ripreso da Arduino, si fosse ispirato a modelli compositivi che aveva acquisito ad Anversa e a Napoli prima del suo definitivo trasferimento a Palermo.
Sullo sfondo della caduta si stagliano le mura di una città turrita, poste in prospettiva ad accentuare l’obliquità del taglio: è Damasco dove Paolo ”rimase tre giorni senza vedere e senza prendere né cibo né bevanda”.
Nella seconda scena (fig. 2) San Paolo (la fonte è sempre il capitolo 9 degli Atti degli Apostoli) viene calato giù dalle mura di Damasco dentro ad una cesta, per sfuggire al complotto dei Giudei che tramavano contro di lui nell’intenzione di ucciderlo. La cesta, in realtà, è diventata un lenzuolo con il quale, in posa assai stravagante, il Santo viene calato giù, ma sembra levitare verso l’alto piuttosto che sentire la forza di gravità. È una di quelle pose “a capriccio” che rendevano così peculiare l’arte del Borremans e che Arduino ha ripreso, come l’anfiteatro nello sfondo per rendere lo spazio della città antica dietro i beccatelli delle mura di Damasco.
Un particolare curioso è certamente legato alla torre: se nella scena della caduta da cavallo sono presenti i merli, in questa non ve ne è traccia. I nostri affreschi non hanno, infatti, sfondi urbani o paesaggi naturali curati nel dettaglio, ma posti soltanto a decoro della scena, a documentare una stagione artistica in cui l’effetto di sfondamento predomina sul realismo dello sfondo.
Nel terzo riquadro (fig. 3), sempre opera dell’Arduino, Paolo è in ceppi dinanzi ad un uomo togato e con eleganti calzari: potrebbe essere il governatore Felice (Atti, cap. 24), Festo (Atti, cap. 25) o più probabilmente il re Agrippa (Atti, cap. 26), come dimostra la presenza nella mano sinistra dello scettro, presso i quali fu costretto a difendersi dopo essere stato messo in catene a seguito di una sommossa scoppiata a Gerusalemme. È una scena di taglio dialogico: a Paolo che parla fa da contraltare l’autorità romana seduta su un trono di taglio barocco, posto su un alto basamento a gradini collocato in prospettiva. Si scorge un edificio tardo-rinascimentale o seicentesco sullo sfondo che nulla ha a che vedere con le austere architetture romane, mentre la colonna scanalata alle spalle dell’uomo ha un drappo alla sommità, secondo il gusto per il teatro ereditato dalla cultura barocca. La costruzione della prospettiva e il punto di vista collocato in basso rendono Paolo monumentale nel suo piglio oratorio, tanto che sulla sinistra viene collocato a bilanciare la scena un vaso con un drappo.
Nella quarta scena (fig. 4), opera del Borremans, San Paolo è intento a predicare: tradizionalmente si pensa che sia il momento in cui, giunto ad Atene, si sia recato sull’Areopago per annunciare Cristo a quegli uomini che “non avevano passatempo più gradito che parlare e sentir parlare” (Atti, cap. 17). Ricompaiono i colori smaglianti del fiammingo, a volte anche poco naturalistici ma sempre coinvolgenti. La scena si distingue dalle precedenti perché affollata di personaggi, tutti caratterizzati da abbigliamento contemporaneo e cappelli di ogni foggia: toghe, maniche rigonfie e a sbuffo, mazzocchi e berrette. Il personaggio sulla sinistra che volge le spalle allo spettatore ha anche la veste di tessuto damascato. Ma quello che emerge maggiormente è, sulla destra, un uomo abbigliato come fosse un’autorità con un berretto scarlatto che tanto somiglia al camauro papale, ma senza ermellino, che inforca un vistoso paio di occhiali a pince-nez.  Nell’agitazione della scena il Borremans ha voluto distinguere questo dotto con l’aria sdegnata, volendolo caratterizzare come un sacerdote, forse, e al contempo uno studioso. I sei personaggi che circondano Paolo, che incede dinamicamente ad indicare l’energia della sua predicazione, recano rotoli e libri in mano e si mostrano agitati e sdegnosi nei confronti della sua predicazione. È forse la scena meglio riuscita, certamente la più vivace, quella che mostra quell’impasto dei colori “a capriccio” e “differente dal vero”, quelle tinte “manierose, proprie dello stile fiammengo, ed improprie alla verità”, caratteristiche che sottolinea padre Fedele da S. Biagio nei suoi Dialoghi familiari sopra la pittura difesa ed esaltata dal p. Fedele da San Biagio pittore cappuccino col sigavvocato dPio Onorato (Palermo 1788).
Nel quinto riquadro (fig. 5) il Borremans si ispira al ventottesimo capitolo degli Atti, là dove si narra che Paolo, sbarcato fortunosamente a Malta in seguito ad una tempesta, fu accolto dagli indigeni dell’isola, in anacronistici calzoni sulla sinistra della scena, che per scaldarlo fecero un falò. Lì una serpe, svegliata dal calore, lo morse ad una mano ma egli non ne fu avvelenato e la scrollò semplicemente dal dito. Jacopo da Varagine nella “Leggenda aurea” racconta che il fatto avvenne a Mitilene, sostenendo che lì la famiglia di colui che lo ospitava fosse rimasta per sempre immune dal morso dei serpenti. In realtà in Sicilia esiste un culto speciale per San Paolo come guaritore dal morso di serpenti. tant’è vero che nel passato coloro che nascevano il 25 gennaio, data della conversione sulla via di Damasco, potevano divenire “ciarauli”, ossia capaci, secondo le narrazioni del Pitrè, di maneggiare i serpenti e di guarire i loro morsi.
Anche questa scena è dinamica ed affollata, collocata in uno spazio naturale roccioso, nel quale i personaggi si muovono con eleganza ed espressività.
Nel sesto riquadro (fig. 6), un ovale rotondo San Paolo in catene viene trascinato dai soldati (con le armature di foggia barocca, con l’evidente anacronismo a cui il pittore ci ha abituati), mentre un uomo si inginocchia al suo passaggio. Probabilmente il riferimento biblico è all’ultimo capitolo degli Atti, il ventottesimo, quando Paolo giunge a Roma in catene e viene salutato dai fratelli al Foro di Appio e alle Tre Taverne, prima di comparire dinanzi all’imperatore al quale si era appellato.
Anche qui la scena è costruita dinamicamente per l’affollarsi dei personaggi (ben otto), per il variare delle fogge dei vestiti e degli elmi, per una lancia che divide lo spazio in due in obliquo. Le pose sono eleganti, pur nella concitazione, sottolineate dalle movenze delle mani che sono lunghe e affusolate, secondo quell’eleganza compositiva che è la cifra espressiva del Borremans.
Il settimo riquadro (fig. 7) è mistilineo e racconta della decapitazione del Santo sulla via Ostiense, sotto il regno di Nerone, così come viene narrato da Eusebio e San Girolamo, il quale afferma che Paolo fu decapitato nello stesso giorno ed anno in cui Pietro fu crocifisso.  Il modulo compositivo della decollazione ha un preciso modello, infatti la posizione del carnefice è identica alla “Decollazione di San Paolo” (1158-1559) di Taddeo Zuccari nella cappella di San Paolo della chiesa di San Marcello al Corso. Potrebbe essere questa l’ulteriore prova di un passaggio del Borremans a Roma[3].  
Lasciando la centralità della scena al Santo orante, illuminato da un fascio di luce che viene dall’alto, quasi a chiudere la narrazione avviata sulla via di Damasco, il Borremans nella nudità del carnefice amplifica la crudezza del gesto di sollevare la spada per recidere il capo, dinanzi al soldato in ricca armatura sulla sinistra e a personaggi oranti sulla destra. La scena è ambientata in un paesaggio naturale (la via Ostiense) ed è strutturata su più piani nei quali si avvicendano le figure che fanno da sfondo, che sembrano progressivamente sbiadire in profondità.
Il capo sembra qui essere protagonista della scena quel capo che è protagonista del dittico trascritto a San Pietro in Vincoli “Laetus procubuit Paulus cervice secanda, cui caput est Christus despicit ipse suum”. Il Santo non teme che gli venga recisa la testa perché riconosce in Cristo il centro della sua vita, al punto da provare disprezzo per la propria.
Con questa scena, la più drammatica delle sette, il Borremans chiude la storia del Santo, che tuttavia è solo un punto di svolta per i trionfi del registro successivo. Non a caso nella parete di fondo della cattedrale, dove l’architetto Ferrigno aveva creato il suo capolavoro e il Borremans aveva dipinto l’Immacolata in gloria, incontriamo Paolo ai piedi della Vergine, con la spada a due tagli, a simboleggiare la parola di Dio che consente all’uomo di distinguere il bene e il male.
La conclusione della vicenda terrena del Santo, dunque, non è segnata dal martirio ma dal trionfo che attende coloro che verso Cristo, in corrispondenza dell’altare, tengono fisso il loro sguardo.
Aurelia Speziale


[1] Tutte le immagini sono tratte dal volume di AAVV Il Restauro della Cattedrale di Caltanissetta, Editore Salvatore Sciascia, Caltanissetta 2001
[2] AAVV, Per Citti Siracusano. Studi sulla pittura del Settecento in Sicilia. Magika, Messina 2012pp. 39-43 e 51-56.
[3] F. ABBATE, Storia dell’arte nell’Italia meridionale. Il mezzogiorno austriaco e borbonico, Donzelli Roma 2009, p. 621


La Cattedrale di Caltanissetta e l’iconografia di S. Pietro

Da A. Speziale, La cattedrale di Caltanissetta e l’iconografia di San Pietro, in Parrocchia San Pietro, Caltanissetta. Da quarant’anni comunità di battezzati. Caltanissetta, Paruzzo Editore dicembre 2017, pp. 169-179

La chiesa di Santa Maria la Nova a Caltanissetta, inaugurata nel 1622 e divenuta Cattedrale nel 1844 con l’istituzione della Diocesi, deve il suo impianto decorativo all’iniziativa del parroco Agostino Riva che nel 1718 decise di affidare, grazie ad una generosa offerta di denaro da parte del canonico Raffaele Riccobene, la decorazione della navata principale al pittore fiammingo Guglielmo Borremans.
Il progetto del parroco era ambizioso: nei pilastri, ciascuno dei quali reggeva una statua di apostolo, doveva essere raccontato l’Antico Testamento, nella volta, invece, il trionfo della Chiesa, attraverso la lotta vittoriosa della Fede sul Paganesimo, l’Ebraismo, l’Eresia e l’Islam; la gloria di Cristo  fra santi; l’Immacolata Concezione, con apostoli, patriarchi, profeti, padri e dottori della Chiesa; l’incoronazione della Vergine tra patriarchi e profeti; l’arcangelo Michele che caccia Lucifero e fa precipitare i ribelli nell’abisso. Tra i riquadri e in corrispondenza delle finestre le vele dovevano raccontare storie di santità legate ai culti locali, mentre tra una vela e l’altra prendevano posto storie della vita di San Pietro da un lato e di san Paolo dall’altro. Gli spazi erano stati magistralmente scanditi grazie all’opera dell’architetto Francesco Ferrigno, anima delle partiture nello spazio.
Il trionfo della Chiesa, dunque, poggia sulla santità di coloro che hanno guidato nel tempo e nello spazio il popolo di Dio, orientandolo con la predicazione e con l’esempio, in particolare su Pietro e Paolo che, pur nella loro diversità, hanno gettato il seme affinché la comunità dei seguaci di Cristo fruttifichi e si rafforzi.
A sottolineare la pluralità della loro predicazione Pietro e Paolo si affrontano sui due lati della volta in sette differenti riquadri posti tra le vele, “dipinture queste”, come afferma il Di Marzo nel 1912, “che per bellezza del comporre e del colorire son veramente degne del sovrano maestro[1]”.
Bisogna, tuttavia, evidenziare come non tutti i riquadri che raccontano di S. Pietro sono attribuibili al Borremans, in quanto il tetto della Cattedrale fu squarciato durante la II guerra mondiale, in occasione dell’ingresso degli alleati in Sicilia. La copertura, in corrispondenza del portone centrale crollò, portando con sé i meravigliosi affreschi del Fiammingo. Per questo motivo le scene della vita di S. Pietro in parte sono da attribuire a Nicola Arduino, pittore piemontese studioso del Tiepolo, che seguendo le testimonianze, cercò di ricostruire le scene del Borremans, cercando di imitarne i colori e le movenze.
L’Arduino cercò di armonizzare il proprio lavoro con l’originale, raccogliendo tutte le testimonianze possibili per evitare di allontanarsi troppo dal Borremans. Il pittore tradisce certamente uno stile più sobrio e lineare e un gusto meno marcato per il colore che in Borremans era, secondo p. Fedele da S. Biagio, “a capriccio” e “specialmente nelle carnaggioni differente dal vero[2]”. Gli manca, in particolare, quel “violetto di Marte” nel quale il Borremans eccelleva, colore poco naturalistico ma di grande impatto visivo, nel quale il visitatore della Cattedrale si imbatte con stupore.
Entrando in Cattedrale la prima scena, sulla sinistra, racconta la vocazione di Pietro ed è opera dell’Arduino (la firma dell’artista è in basso a sinistra), probabilmente senza i colori smaglianti che dovevano caratterizzare l’originale. Cristo invita Pietro, accovacciato sulla sua barca, mentre regge con la mano destra le reti, a seguirlo come “pescatore di uomini”. Dal punto di vista iconografico il santo è riconoscibile dalla barba, dai tratti popolani ed è stempiato e sulla barca, icona della Chiesa, mentre regge le reti. Le vesti sono nei colori tradizionali: il mantello giallo e la tunica in azzurro.
La composizione è dinamica per la posa del Cristo incedente e per la presenza dell’albero dell’imbarcazione inclinato e delle nubi bianco-rosate che agitano un cielo azzurrino.
Il modello compositivo non appartiene né al Borremans né all’Arduino, ma è rintracciabile in Luca Giordano (“Vocazione dei Santi Pietro ed Andrea” al Frick Museum di Pittsburgh - https://collection.thefrickpittsburgh.org/objects/37), anche se del Giordano il nostro attenua le movenze e semplifica il numero delle figure.
La seconda scena, sempre dell’Arduino, racconta della consegna delle chiavi, secondo la versione dell’evangelista Matteo: “A te darò le chiavi del regno dei cieli” (Mt 16, 17-19), il testo che sottolinea il primato petrino che nel periodo della Riforma aveva suscitato tante controversie. Probabilmente nell’ottica del parroco Riva e del Borremans questa doveva essere una scena cruciale a sottolineare il primato del Papa e della Chiesa Cattolica in materia di fede.
Lo sfondo è fortemente classicheggiante, per la presenza di solidi elementi architettonici, quali colonne ed archi modanati che si stagliano sul consueto cielo mosso da nubi. Anche qui le pose sono accentuate, gli abiti mossi, lo sguardo tra Cristo e Pietro intensissimo.
La presenza degli elementi architettonici potrebbe rimandare al Vangelo di Matteo: “Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia chiesa”, che spiegherebbe anche perché Gesù stia saldo in cima al secondo dei due gradini su cui poggiano le figure, mentre Pietro, seppur inginocchiato, sembra salire dal basso, in una posa innaturale. Si potrebbe leggere la scena come un’ulteriore sottolineatura del primato della Chiesa Cattolica, che poggia le sue basi sulla diretta e solida predicazione di Cristo. L’apertura verso lo spazio aperto sulla destra, che fa da contraltare all’edificio solidissimo sulla sinistra, crea la percezione interno/esterno che connota la predicazione della Chiesa Cattolica.
Non mancano due deliziose ghirlande rococò alla sommità della scena, che forse erano nell’originale del Borremans e che, in ogni caso, lo rievocano.
Nel terzo riquadro, di forma ovale, Pietro è rappresentato come pastore di pecore (GV 21,15-17), facendo riferimento anche alla I lettera che gli viene attribuita. Anche quest’opera è certamente dell’Arduino che la firma, ed ha come protagonista il Santo con uno sguardo accorto e mite che si volge verso le pecore, con un gesto che sembra chiamarle a raccolta su uno sfondo naturale molto poco caratterizzato. Da notare la presenza della ferula, il bastone che richiama l’asta che adopera il Papa come simbolo della sua potestà. Il quarto riquadro, riccamente modanato, è opera del Borremans, del quale si riconosce l’eleganza raffinata nella costruzione delle figure, che sono mosse e raffinate nelle movenze, flessuosamente atteggiate. Pietro è addormentato su un basamento in pietra squadrata, poggia la testa sul suo braccio destro, si allunga obliquamente nello spazio in basso della scena. Se il suo capo conserva traccia dei tratti popolani (è quasi calvo, con i capelli rimasti e la barba folti, bianchi e ricci), raffinatissimi sono i particolari: è elegantemente appoggiato, mani e piedi scalzi affusolati e curati, veste ben composta. In altro angeli reggono un telone che regge animali.
L’episodio è narrato in Atti degli Apostoli, al capitolo 10: Pietro sogna un lenzuolo pieno di animali impuri, mentre una voce dal cielo lo invita ad uccidere e mangiare, perché “Ciò che Dio ha purificato, tu non puoi più chiamarlo profano”. È l’invito ad accogliere nella comunità dei Cristiani anche i non circoncisi. Due elegantissimi angeli reggono il lenzuolo, uno dei quali con la bocca aperta sembra cantare. Mentre l’angelo di destra è vestito, quello di sinistra si allunga nello spazio esibendo un nudo giovanile molto bello ed allungato, quasi nelle movenze della danza. La presenza degli angeli è un tratto costante in S. Maria la Nova, che era dedicata anche a S. Michele, patrono della città che ha verso l’Arcangelo una speciale devozione.
L’insieme è illuminato dai colori chiari e cangianti che rendono mosso il cielo e il paesaggio retrostante. Anche qui due ricche ghirlande con fiori chiari pendono dalle modanature, quasi a sottolineare la finzione nella rappresentazione, l’effetto scenografico e teatrale.
Nella quinta scena Pietro fugge dal carcere. Il riferimento è al cap. 12 degli Atti degli Apostoli: i fatti narrati si collocano tra il 41 e il 44, sotto il regno di Erode, quando si scatenò una persecuzione contro i Cristiani e fu arrestato Pietro, “consegnandolo in custodia a quattro picchetti di quattro soldati ciascuno”. Pietro stava dormendo, piantonato da due soldati, quando comparve un angelo che “toccò il fianco di Pietro”, lo invitò a legarsi la cintura e mettersi i sandali, avvolgendosi il mantello per seguirlo. La scena, assai dinamica, ripercorre passo passo il brano del Nuovo Testamento: Pietro è appena uscito dalla sua cella, viene preso dall’angelo per un lembo della veste e reca il mantello allacciato e i sandali ai piedi.
L’angelo è un puttino biondo dalla veste svolazzante. Sembra di sentire quello che padre Fedele da S. Biagio afferma nei suoi “Dialoghi sopra la pittura”: c’è “qualche scorrezione di proporzione nelle sue figure”, attribuendogli qualche bizzarria, nonostante la capacità di lavorare con rapidità ed ingegno. E bizzarri sono certamente i due soldati con elmo e corazza di taglio anacronistico, in quanto armature a piastra del tempo e non certamente romane, come si evince in particolare dall’elmo e dagli spallacci, che assecondano la postura scomposta dei due dormienti.
La calzamaglia e le calzature amplificano la sensazione di spaesamento, in quanto collocabili in un’altra dimensione temporale rispetto alla semplicità dell’abito e dei sandali di Pietro.
Altrettanto bizzarra l’architettura isodoma del carcere, in pietra tagliata, che rivela un’eleganza assai lontana dalle esigenze di un edificio di detenzione.
Anche qui la fuga sembra avvenire a passo di danza e la gestualità è sottolineata e innaturale, come innaturale è la veste dell’angelo che si apre spumeggiante attorno alla figura.
La sesta e la settima scena raccontano della vita di S. Pietro attingendo alle fonti della tradizione piuttosto che alle sacre scritture. Gli episodi si collocano a Roma dove la vita del santo si è conclusa con il martirio.
Il sesto riquadro, dal campo ovale, è stato erroneamente interpretato come il battesimo del centurione Cornelio, ma in realtà si riferisce alla conversione dei santi Processo e Martiniano per i precisi riferimenti iconografici presenti nella scena.
Il santo è in catene e dunque l’ambientazione coincide con il carcere Mamertino (o Tullianum), dove la tradizione vuole che Pietro sia stato tenuto prigioniero a Roma. Capiamo che si tratta del carcere in questione dalla presenza della sorgente d’acqua che sgorga dentro la prigione, in quanto la tradizione attribuisce a Pietro il miracolo della fonte, nel momento in cui i suoi due carcerieri si convertono e il battesimo può avvenire. I due poi chiedono a Pietro di fuggire dicendogli: “O Signore, vai dove vuoi, giacché noi pensiamo che ormai l'imperatore si è dimenticato di te” (...) Dopo che nel carcere Mamertino tu ci hai battezzati nel nome della Trinità Santissima, facendo sgorgare una fonte dalla rupe, con la preghiera e il segno della croce, tu sei andato liberamente dove hai voluto e nessuno ti ha molestato».
L’indice di Pietro rivolto verso l’esterno può indicare la volontà di Pietro di recarsi fuori dal carcere, inizialmente per allontanarsi da Roma dove, sulla via Appia, incontrerà Cristo a cui chiederà “Domine, quo vadis?”, episodio che lo condurrà nuovamente nella capitale dell’impero per subire il martirio. La storia è narrata dal “Martyrium Beati Petri Apostoli” dello Pseudo-Lino.
L’ultima scena racconta del martirio ed è stata costruita iconograficamente sulla scorta de “La crocifissione di Pietro” di Luca Giordano (Venezia, Gallerie dell’Accademia), un dipinto datato al 1660 che Borremans rievoca nella posizione fortemente obliqua della croce, con la presenza sulla sinistra del carceriere che tira la fune, con il soldato sulla destra in armatura contemporanea. La presenza degli angeli, attestata dal racconto dello Pseudo-Lino, che il Giordano collocava a riempire il cielo fosco di nubi, qui sembra evocata da un personaggio che si incunea in modo poco naturale tra la croce e il carceriere. Dal cielo luminosissimo vengono emessi raggi di luce. Anche qui troviamo il bizzarro anacronismo del soldato portabandiera e la presenza delle due ghirlande a chiudere la scena cadenti dalla sommità delle modanature.
La drammaticità si stempera anche nelle figure dei due bruti carcerieri che, pur con vesti da lavoro ed in evidente condizione di fatica, non riescono a rendere appieno la tragicità del momento, dinanzi alle vesti svolazzanti e ben composte e alla gestualità sempre contenuta ed elegante di Pietro. Il “tocco seducente” di cui parla il Di Marzo non viene meno neanche nelle rappresentazioni più tragiche e mosse.  

Aurelia Speziale


[1] Per una panoramica completa dei lavori di Gioacchino Di Marzo su Borremans si consiglia una visita al sito http://www.casateatromassimo.it/vivapalermo/BorremansOnLine/index.html
[2] Dialoghi familiari sopra la pittura difesa ed esaltata dal p. Fedele da San Biagio pittore cappuccino col sig. avvocato d. Pio Onorato... (Palermo 1788), dedicati al duca d'Angiò, 1788 -  Giorno decimoquarto



La Vergine del Carmelo con i profeti Elia ed Eliseo e i Santi giovanni Battista, Stefano, Francesco di Assisi e Luca Evangelista
di Filippo Paladini


Il dipinto (firmato e datato sul libro: FILIPPO PALADINI FIORENTINO PINGEBAT 16..4) si trova nella chiesa di Santa Maria La Nova ma è proveniente dalla chiesa del Carmine. E' forse identificabile con quella pregevolissima “tela della Madonna del Carmelo coi santi Simone Stochio, Stefano e l’Evangelista S. Luca del Facciponte”, sita nella chiesa di Maria SS. Annunziata.
Nel dipinto lo spirito è devozionale ed è presente la fedeltà estetica alla cultura dello Studiolo fiorentino, specie attraverso la modulazione plastico-luministica delle figure, di spirito e sensibilità nuova.

Nella risonante dialettica di luce ed ombra delle sue pieghe, in cui chiaramente prevale la luce, così come su tutto prevalgono la fede e la grazia nelle epiche lettere dell’Apostolo di Tarso.

Con probabile riferimento a questa tela vi è un disegno di un noto taccuino siracusano e precisamente una figura virile in piedi con doppio profilo di testa.

Redatto da: Egle Salamone

Fonte: AAVV, La pittura nel nisseno dal XVI al XVIII secolo, Salvatore Sciascia 2001

lunedì 9 dicembre 2019


VINCENZO ROGGERI IN CATTEDRALE



BIOGRAFIA DEL ROGGERI
Vincenzo Roggeri nacque a Caltanissetta nel 1635. Nel 1656 si sposò con Margherita Patrocinio dalla quale ebbe cinque figli. La famiglia del Roggeri apparteneva al ceto abbiente di Caltanissetta, la cui ricchezza derivava dalle numerose commissioni che l’artista riceveva e infatti le sue spoglie furono accolte nelle chiesa di San Domenico. I suoi primi anni furono influenzati dall’artista siciliano Piero D’Asaro ma, successivamente egli approfondì il linguaggio caravaggesco. Roggeri, in particolare, si differenzió per l’originalità delle componenti espressive e tecniche delle sue opere. Nel dettaglio Roggeri nei suoi dipinti si avvaleva di uno spettro cromatico che andava dal rosso al marrone.

In Cattedrale sono conservate alcune sue opere


LA SACRA FAMIGLIA CON SANT’ANNA E SAN GIOACCHINO
Nel quadro in questione è rappresentata la Madonna con in braccio Gesù Bambino; a destra si trova sant’Anna che è intenta di offrire al Bambinello delle ciliegie, mentre a sinistra e a destra rispettivamente troviamo San Giuseppe e San Gioacchino che ammirano la scena. Il dipinto potrebbe collocarsi in una fase dell’artista piuttosto avanzata, dove il suo stile si ispira al naturalismo caravaggesco.

LA LAPIDAZIONE DI SANTO STEFANO
Nella scena è raffigurato santo Stefano che prega in ginocchio, attorniato dalla folla giudea che lo accusa di aver bestemmiato contro Mosè e contro Dio e vuole lapidarlo. In alto al centro è raffigurata la santissima Trinitá circondata da coppie di angeli, uno dei quali regge un ramo di palma come metafora del martirio e della vittoria cristiana sulla morte. Da notare che i diversi soggetti che affollano il dipinto sono raffigurati con grande realismo ed una precisa anatomia dei corpi.

IL MARTIRIO DI SAN LORENZO
San Lorenzo è rappresentato insieme ai suoi carnefici: il primo lo blocca dalle spalle, il secondo a sinistra sta attizzando la brace, il terzo invece lo tormenta con una forcella. In alto a destra, secondo la tradizione agiografica l’imperatore Valeriano che, seduto sullo scranno, assiste al supplizio. Particolarmente suggestivo l’effetto illuministico che pervade la cupa scena notturna, ottenuto dalla concentrazione al centro del dipinto della luce della fiaccola.E' una copia da Tiziano.

IL MARTIRIO DI SAN FELICE
Fonti storiche ricordano che i resti del santo martire verranno omaggiate a Francesco Moncada, il quale provvide a collocarle nella chiesa dei cappuccini di Caltanissetta. Successivamente vennero trasferite nella chiesa di Santa Maria la Nova e collocate nell’altare di una cappella a lui dedicata. Il Santo è collocato al centro ed è inginocchiato in preghiera; raffigurato con i polsi legati da una corda.
A destra della scena un anziano trascina un ariete, simbolo del martirio. Un uomo sul fondo sta per mozzare il capo del santo. In alto a destra una figura su un trono, che sta per dare l’ordine di esecuzione.

SANTA ROSALIA GUIDATA DAGLI ANGELI
Santa Rosalia è rappresentata guidata da due angeli di cui uno le indica la strada per Palermo. In basso, due angioletti reggono ciascuno un crocifisso ed un teschio, un terzo una corona di rose simboli della Santa palermitana.

SANT’ANNA, SAN GIOACCHINO E LA MADONNA BAMBINA
La Santa è rappresentata nell’atto di istruire la vergine bambina; San Gioacchino assiste attento all’indottrinamento della figlioletta. Il trattamento del panneggio e l’uso di accese cromie sono simili a quelli della Santa Apollonia custodita nel museo diocesano.

I SETTE ARCANGELI

La composizione pittorica comprende sette dipinti che ornano la base dell’organo. Vi sono raffigurati sette angeli:
•Salitiele, l’Arcangelo dell’Ordine Sacro, colui che parla con Dio, raffigurato in preghiera.
•Raffaele, l’Arcangelo medico dell’estrema unzione e protettore dei giovani, rappresentato con il giovane Tobia.
•Gabriele, l’Arcangelo degli annunci e del battesimo, raffigurato con la lanterna accesa, lo specchio ed il giglio a tre fiori.
•Michele, l’Arcangelo condottiero, il cui nome significa “chi come Dio?”, rappresentato con spada e lancia.
•Barrachiele, l’Arcangelo del matrimonio, con l’attributo delle rose.
•Uriele, l’Arcangelo della confermazione, con la spada e lo scettro.
•Ieuridiele, l’Arcangelo della penitenza, con la corona e lo scettro.

SANT’ELIGIO

Il Santo fu orafo e palafreniere. Sant’Eligio è stato oggetto di venerazione da parte degli orefici e dei maniscalchi nisseni. Tra il 1811 e il 1880 gli venne dedicata una cappella dove sono collocati sia il dipinto, sia la statua che lo raffigura. E' raffigurato in un affresco nella terza lunetta a sinistra della volta. Posto al centro del dipinto regge con una mano il pastorale; ai lati due angeli gli sorreggono la veste, in alto altri due angeli tengono nelle mani la mitra le tenaglie ed il martello. Nella parte inferiore del dipinto è rappresentato il miracolo della ferratura di un cavallo imbizzarrito.



Realizzato da: Giulia Giardina, Marta Scalzo e Maria Vittoria Gueli


Tratto da AAVV, Vincenzo Roggeri, pittore nisseno del Seicento, Paruzzo 2013



La tela dell'Immacolata e i Santi 
di Guglielmo Borremans

“L’Immacolata e i santi” è un dipinto realizzato a olio su tela da Guglielmo Borremans, che si trova sull’altare maggiore della cattedrale Santa Maria la Nova. Questo rappresenta l’Immacolata fra una schiera di angeli con al di sopra Dio Padre, Cristo e lo Spirito Santo ed in basso gli Apostoli Pietro e Paolo, fondatori della Chiesa cristiana insieme con le minori protettrici della città: S. Orsola, S. Agata e S. Caterina.

Peculiare tratto dell’opera è la presenza nella parte in basso a destra della figura del sacerdote Riccobene, lo stesso committente del ciclo di affreschi della chiesa.

Il dipinto ha sicuramente un’ influenza barocca, che si nota nel movimento indistinto di masse inserite su più piani prospettici. Dal punto di vista cromatico si nota l'uso del "violetto di Marte", caratteristico del pittore.

Redatto da Egle Salamone e Beatrice Di Gregorio

Tratto AAVV, La pittura nel nisseno dal XVI al XVIII secolo, Salvatore Sciascia 2001



La statua di san Michele


Lo storico nisseno Punturo nel suo libro, oltre a narrare delle apparizioni dell'arcagelo in occasione della pestilenza del 1624, descrive la statua del santo che attualmente si situa nella Cattedrale di Santa Maria la Nova. In un passo del suo libro, riporta i documenti e le tradizioni, secondo le quali la prima rappresentava l'angelo custode e solo successivamente venne modificata in San Michele Arcangelo da uno scultore; una leggenda riguardante la testa della statua afferma che essa sia di fattura divina. Per quando riguarda i documenti, la realizzazione della scultura si attribuisce all'artista Stefano Li Volsi di Nicosia. Nel corso dei secoli, la statua ha subito delle modifiche, per quanto riguarda l'intaglio e i colori. La prima modifica fu eseguita dallo scultore Domenico Pugliese nel 1785, il quale pare abbia raschiato completamente la scultura portando alla perdita delle cromie e delle fattezze originali.

Grazie al contributo economico da parte dei cittadini, la statua subì nuovamente una modifica avvenuta per mano dei Biangardi, maestri napoletani. Questi ultimi si dedicarono al restauro dei panneggi e dell'armatura.

Al giorno d'oggi non si può godere della bellezza piena della statua poiché la figura del Santo è da sempre ricoperta da un prezioso mantello rosso in velluto arricchito da ricami dorati.

Redatto da Jamila Pastorello e Giulia Pagano

Tratto da NADIA RIZZO, San Michele Arcangelo nell'arte europea: iconografia della giustizia e pietà popolare, Paruzzo 2005

sabato 7 dicembre 2019

Saul
Tredicesimo arco
Lato sinistro


Il nome Saul significa “desiderato a richiesto”. Viene proclamato e consacrato re di Israele dal profeta Samuele.

Poiché i capi degli Israeliti hanno chiesto a Samuele un re che li governasse, Saul è inviato dal padre Kis a cercare le sue asine che si sono smarrite. Così decide di andare dal profeta Samuele per conoscere come e dove trovarle. Da lui viene quindi consacrato. Samuele dice al popolo di Israele: “Avete visto chi ha scelto il Signore? Non c’è nessuno come lui in tutto il popolo”. Tutti acclamano a gran voce: “Viva il re!”. Divenuto re Saul assedia gli Ammoniti e li sconfigge. Ma i principali nemici di Israele sono i Filistei. Contro di loro Saul ottiene alcuni successi. Nella guerra contro gli Ammoniti il re e i suoi soldati sterminano il popolo, ma risparmiano il re Agag e anche le pecore e i buoi migliori. Per questa sua colpa Dio respinge Saul che, tormentato da uno spirito maligno, diviene sempre più ossessionato per la gelosia e per il sospetto verso Davide. Il conflitto tra Saul e Davide finisce quando Saul, sconfitto in una battaglia contro i Filistei, si uccide con la sua stessa spada.

SAMUELE UNGE SAUL COME RE, LO PRESENTA E LO INCORONA

Saul con un suo servo sono alla ricerca delle asine di Kis, suo padre, che si erano smarrite. Non riuscendo a trovarle, si rivolgono a Samuele, il veggente. Samuele rivela che le asine si sono trovate; il giorno successivo unge Saul con l'olio, consacrandolo capo della tribù di Beniamino.

SAMUELE RIMPROVERA SAUL.

Saul aveva proibito in tutto il suo territorio la pratica di consultare i morti.

Raduna l'esercito per affrontare l'assalto dei Filistei; avendo paura interroga il Signore ma non riceve risposta. Dunque, nonostante la sua disposizione, incarica una donna di interrogare Samuele. Questo appare anche a Saul, che manifesta la sua disperazione per l'attacco da parte dei Filistei e per essere stato abbandonato da Dio e Samuele risponde che era stato abbandonato poiché aveva disobbedito agli ordini del Signore. Terrorizzato da queste parole, Saul cade a terra.

LA MORTE DEL SACERDOTE ELI

Eli è giudice di Israele e sacerdote a Silo.

Predice ad Anna, andata al tempio per avere il dono di un figlio, che la sua preghiera sarà esaudita.

Samuele, frutto della promessa di Eli, viene consacrato al servizio del Signore.

Eli ha novantotto anni quando l’Arca del Signore viene presa dai nemici. Sentito questo cade all'indietro, batte la testa e muore.

SAUL E LA PITONESSA DI ENDOR

L'affresco ricorda l'incontro di Saul, scoraggiato e impaurito per la presenza minacciosa dei Filistei, con la donna di Endor, che interrogava i morti. Saul va ad interrogare la pitonessa di Endor dalla quale si fa chiamare Samuele.

Redatto da Egle Salamone, Gaia Bellavia, Sofia Nalbone, Giulia Russo

Tratto da Rosario Salvaggio, Gli archi della Cattedrale narrano l'Antico Testamento, Paruzzo editore 2007


Davide re

DODICESIMO ARCO 


DAVIDE RIFIUTA IL CIBO PER IL BAMBINO MORIBONDO

Davide pecca di adulterio con Betsabea moglie di Uria. Il profeta Natan gli fa prendere coscienza di queste colpe. Per questo pentimento Natan annunzia il perdono di Dio nei suoi confronti, mentre il bambino nato da Betsabea morirà. Davide prega per la vita del bambino e non mangia nulla. Dopo una settimana il bambino muore e con la morte del bambino Davide riprende a mangiare con grande meraviglia dei servi.


DAVIDE DAL SACERDOTE ABIMELECH, PRESENTE DOEG

Davide è perseguitato da Saul. Gionata è intervenuto per permettere a Davide di andare a Betlem e Saul si infuria contro Gionata: così afferra la lancia e la scaglia per colpirlo. Gionata capisce che deve avvertire Davide. Avvisato da Gionata, Davide va dal sacerdote Abimelech, che dà a Davide i pani consacrati e inoltre gli concede, sotto sua richiesta, la spada di Golia. A questo incontro è presente Doeg, seguace di Saul, il quale riferisce al re dell’incontro. Così Saul manda a chiamare Abimelech e lo accusa di complotto contro di lui e Abimelech si difende dicendo che non sapeva nulla. Saul lo condanna a morte, ma gli ufficiali si rifiutano di uccidere un sacerdote del Signore. Così si fa avanti Doeg che colpisce a morte i sacerdoti. In quel giorno vengono uccisi ottantacinque sacerdoti.

LA MORTE DI ABNER

Abner è il capo delle truppe di Saul. Alla morte di Saul, Abner prende con sé il figlio di quest’ultimo, Is-Baal e lo fa re del regno di Israele, ad eccezione del territorio di Giuda che rimane sotto Davide. Le truppe di Is-Baal, vanno a Gabaon, lo stesso fanno le truppe di Davide guidate da Ioab. Abner propone a Ioab di evitare lo scontro tra i due eserciti, facendo combattere solo due gruppi di giovani. La proposta viene accettata e avviene lo scontro, ma muoiono i giovani di entrambi gli eserciti. Da allora quel luogo è chiamato il “ Campo delle spade”. Dopo l’iniziativa fallita avviene una durissima battaglia dove Abner e i suoi soldati sono sconfitti. Abner riesce a scappare e uccide Asael che lo stava inseguendo. Ioab e Abisai fratelli di Asael vogliono vendicare la morte del fratello. L’occasione giunge quando Abner diventa alleato di Davide. Ioab viene ha sapere dell’incontro fra Davide e Abner, e all’insaputa di Davide, Ioab fa ritornare indietro Abner e lo colpisce al ventre.


DAVIDE ASCOLTA LA REGINA BETSABEA

Questo affresco è uguale a quello dell’arco undicesimo dedicato a Salomone. Betsabea prega Davide di mantenere la promessa che il suo successore sia Salamone al posto di Adonia.


DAVIDE ABBRACCIA ASSALONNE

Assalonne è figlio di Davide. Ha una sorella, Tamar. Amnon è un altro figlio di Davide che si innamora di Tamar, con un sentimento così forte da farlo ammalare. Davide lo va a visitare e fa sì che Tamar vada da lui. Quando la ragazza entra nella stanza Amnon la violenta. Assalonne comincia ad odiare Amnon, perché aveva disonorato la sorella, così organizza una festa per la tosatura dei montoni, e invita anche Davide e Amnon; il primo rifiuta ma manda gli altri. Assalonne ordina di uccidere Amnon. Gli altri fratelli comunicano l’uccisione al padre, Assalonne intanto fugge e si reca dalla nonna materna. Davide è indeciso se richiamarlo o no, ma si fa convincere da un funzionario. Assalonne rimane a Gerusalemme due anni senza vedere il re. Quando finalmente ci riesce, Assalonne si inchina fino a terra e il re lo bacia.


SIMEI LANCIA PIETRE CONTRO DAVIDE IN FUGA

Assalonne non si comporta con gratitudine nei confronti di Davide. Durante i quattro anni in cui rimane alla corte, cerca di preparare una rivolta. Ogni mattina va alla porta di Gerusalemme e, a quanti si recavano per avere fatta giustizia, offre i suoi favori, insinuando che alla corte nessuno avrebbe ascoltato le ragioni. In questo modo si guadagna la simpatia di tutta la gente. Dopo quattro anni Assalonne chiede di andare a Ebron, dove si unisce alla rivolta Achitofel, consigliere di Davide. La congiura monta e Davide, informato che gli Israeliti del Nord parteggiavano per Assalonne, chiama i suoi collaboratori e fugge. Giunti alla città di Beniamino, un certo Simei, si fa avanti per maledire Davide e lancia sassi. I soldati avrebbero voluto uccidere Simei, ma Davide dice:” Quest’uomo mi maledice perché così vuole il Signore.” Davide e i suoi continuano il viaggio.

MORTE DI ASSALONNE

Assalonne vuole liberarsi di Davide per diventare re. Anche Davide si prepara ad affrontarlo, ma  non partecipa alla battaglia. Dà quest’ordine:”Per rispetto a me non fate del male al giovane Assalonne.” L’esercito di Assalonne viene sconfitto; lo stesso Assalonne è circondato da alcuni soldati di Davide. Assalonne muore per mano di Ioab.


ACHITOFEL CONSIGLIA ASSALONNE

Achitofel era uno dei consiglieri di Davide, famoso per la sua saggezza. Si rivela, però,  infedele, e diventa il principale consigliere di Assalonne. Volendo aiutare quest’ultimo a liberarsi di Davide, dà questo consiglio:” Sceglierò dodici uomini e andrò all'inseguimento di Davide, lui avrà paura e i suoi uomini scapperanno, ma ucciderò solo lui.” Il consiglio sembra buono, ma Assalonne vuole confrontarlo con quello di Cusai. La proposta di Cusai è giudicata migliore e a causa di questo Achitofel torna nella sua città e si impicca.


Tratto da Rosario Salvaggio, Gli archi della Cattedrale narrano l'Antico Testamento, Paruzzo editore 2007


Rielaborato da
Marta Scalzo, Giulia Giardina e Maria Vittoria Gueli






Giobbe

NONO ARCO
LATO SINISTRO
          
Giobbe è un uomo onesto e giusto, rifiuta il male perché rispetta Dio, ha 10 figli e possiede numerosissimi buoi, cammelli ed asine. 
Il suo benessere e la sua serenità vengono distrutte gradualmente per intervento di Satana e con il consenso di Dio. Prima viene depredato dai suoi averi, in seguito Giobbe stesso viene colpito da Satana dalla testa ai piedi con una terribile malattia. 
Nonostante la moglie lo abbia criticato e lo abbia invitato a a ribellarsi a Dio e alla sua bontà, egli non  pronuncia alcuna imprecazione. 
Tre amici di Giobbe credono che le sofferenze e le malattie siano sempre la punizione di una colpa commessa, per questo accusa Giobbe di essere colpevole, ma quest'ultimo sostiene di essere innocente e di non  considerare le sue sofferenze come punizioni di Dio. 
Giobbe essendo convinto della propria innocenza, stanco delle umiliazioni ricevute, chiede a Dio di morire. Dunque interviene direttamente Dio, il quale invece di dare risposte dirette al problema, fa delle domande a Giobbe, che non sa come rispondere. 
Giobbe riconosce il suo errore, ha preteso spiegazioni da Dio senza sapere che fosse realmente.
Dio, infine, disapprova gli amici di Giobbe per quello che hanno detto a Giobbe e su Giobbe e li invita da Giobbe perché mediante la preghiera ottenga il perdono delle loro colpe. 
Giobbe prega per loro e dopo la preghiera viene liberato dalla malattia, infine quest'ultimo muore dopo una lunga e felice vecchiaia.

Riquadri

-1 Giobbe visitato da tre amici che lo accusano di essere peccatore Giobbe 
-2 Giobbe percorso e afflitto da Satana 
-3 Giobbe depredato sai suoi beni 
-4 Un servo annuncia a Giobbe la morte dei figli
-5 Giobbe sul letamaio
-6 La moglie di Giobbe lo insulta e lo invita a ribellarsi a Dio
-7 Giobbe reintegrato nella situazione di benessere

Redatto da Esther Fiandaca

Fonte: Rosario Salvaggio, La cattedrale di Caltanissetta, Paruzzo 2001


Abramo
Primo arco a destra

Il primo arco è dedicato ad Abramo, patriarca ebreo, una figura importante per le tre religioni monoteiste.
Abramo ad Ur riceve la chiamata di Dio che lo esorta ad andare verso un luogo che Dio stesso gli mostrerà. Così insieme con sua moglie Sara lascia la propria terra e parte. Dio promette ad Abramo che sarà padre di un numeroso popolo e che ai suoi discendenti verrà data la terra di Canaan. A causa di una carestia da Canaan Abramo va in Egitto dove commette l’errore di presentare al faraone sua moglie Sara come sua sorella. Ma tramite l’intervento di Dio si scopre l’inganno di Abramo così il faraone rimprovera Abramo e lo fa partire dall’Egitto.
A motivo della sterilità di Sara, Abramo concepisce un figlio con la schiava Agar. Il figlio verrà chiamato Ismaele. Dopo la nascita di Ismaele, Dio rinnova ad Abramo la promessa di un figlio. Segno di questo patto è la circoncisione alla quale doveva essere sottomesso sia Abramo che i suoi discendenti. Dopo questo patto Dio rinnova la promessa di un figlio, che Abramo avrà da Sara e che sarà il suo vero discendente: nasce così Isacco, nonostante l’età avanzata di Abramo e la sterilità di Sara.
Isacco cresce e Dio mette alla prova la fede di Abramo chiedendo di sacrificarlo. Abramo ubbidisce preparandosi a sacrificare il figlio, ma Dio accettando l’ubbidienza di Abramo, sostituisce Isacco con un ariete.

REBECCA DISSETA I CAMMELLI DEL SERVO DI ABRAMO
Iniziando dal quadro sopra l’acquasantiera troviamo una donna, Rebecca, che attinge l’acqua per dissetare i cammelli del servo di Abramo. Abramo vuole dare una sposa al figlio di Isacco. La sposa deve essere scelta fra i suoi parenti così egli manda un servo nella terra dove abitano i suoi parenti. Il servo si ferma presso un pozzo dove le giovani vanno ad attingere l’acqua. Abramo prega Dio di dargli un segno per individuare la giovane: avrebbe scelto la fanciulla che lo invitava a bere. Giungendo Rebecca, il servo di Abramo le corre incontro chiedendole da bere e lei si offre di farlo. Rebecca non solo da dà bere al servo, ma anche ai cammelli. Il servo, come ringraziamento dell’acqua ricevuta, le consegna un anello per il naso e due grossi braccialetti d’oro. L’incontro di Rebecca con Isacco avviene in aperta campagna . Conosciuto il racconto del servo Isacco conduce Rebecca nella tenda di sua madre e si sposano.

ABRAMO E SARA DAVANTI AL FARAONE
Il secondo affresco raffigura l’incontro di Abramo e Sara con il Faraone.

IL SACRIFICIO DELL’ ARIETE AL POSTO DI ISACCO
Il terzo affresco rappresenta il sacrificio di Isacco. Isacco è il figlio della promessa di Dio. Sembra inverosimile la richiesta di Isacco da parte di Dio. Il fatto ha uno scopo: presentare Abramo come colui che si fida di Dio. Il sacrificio dell’ariete sostituisce, quello di Isacco. Abramo chiama quel luogo “il Signore provvede”.

LA VOCAZIONE DI ABRAMO
Nel quadro centrale viene presentata la vocazione di Abramo, una vocazione che evidenzia la fiducia dell'uomo nel Signore.

L’ANGELO INDICA IL POZZO DI AGAR
Nel quinto quadro c’è un angelo che indica il pozzo di Agar. Questo pozzo viene presentato come il pozzo di Lacai-Roi, che significa "vivente che mi vede". L'appellativo si inserisce e scaturisce dalla storia di Agar, la schiava di Sara moglie di Abramo. Sara, essendo sterile, suggerisce ad Abramo di concepire un figlio con Agar. Agar però viene maltrattata da Sara ed è costretta a fuggire e mentre fugge un angelo la invita a non andar via dalla sua padrona, ma a ritornare da lei. Nella stessa occasione l’angelo preannunzia che avrà un figlio che sarà chiamato Ismaele, capostipite di numerosi discendenti.

ABRAMO e MELCHISEDEC
L’incontro tra Abramo e Melchisendec avviene quando Abramo, vincitore, è di ritorno dalla guerra contro il re Chedarlaomer, che aveva preso prigioniero il nipote di Abramo. Benedice Abramo e quest’ultimo dà a Melchisendec la decima parte di ogni cosa. Il nome Melchisedec significa “re di giustizia” o “re di pace”.

ABRAMO E I TRE ANGELI
Siamo al capitolo 18º della Genesi: Abramo ha già ricevuto la promessa di un figlio Isacco. Così, ubbidendo al patto con il Signore, circoncide se stesso e tutti maschi del suo clan. Dopo la circoncisione ad Abramo appare il Signore accompagnato da due angeli. Abramo li invita a fermarsi e l’ospitalità viene gradita, così mangiano insieme e mentre mangiano il Signore dice: “e io ritornerò sicuramente da te l’anno prossimo e allora tua moglie Sara avrà un figlio.“

ABRAMO PARLA COL SERVO ELIEZER
Il nome Eliezer significa “il mio Dio è aiuto”. Si può capire il significato di questo nome, quando egli, inviato a cercare la sposa per Isacco, prega Dio. La sua preghiera viene esaudita. Eliezer è il servo più anziano di Abramo, il suo uomo di fiducia.

Redatto da Marta Scalzo


Tratto da Rosario Salvaggio, Gli archi della Cattedrale narrano l'Antico Testamento, Paruzzo editore 2007




La volta del Borremans

La volta, suddivisa in 5 affreschi dall'architetto palermitano Francesco Ferrigno, è radiosa di luci e colori, originariamente dipinta tutta da Guglielmo Borremans. Il primo riquadro, partendo dall’ingresso, è “Il trionfo della Fede” personificata in una donna che tiene un calice e l’ostia in una mano, mentre con l’altra fulmina le eresie ed è seduta su un cocchio d’oro circondata da angeli.
Nel secondo affresco, “Il coro delle Vergini”, troviamo Cristo che sostiene la croce assieme ad un gruppo di angeli, mentre ai lati sono rappresentati diversi santi, tra cui risalta Santa Rosalia coronata di rose.

Il terzo riquadro, in posizione centrale, è la sintesi di tutto il poema biblico-teologico ed è il più grande e luminoso: notiamo “L’immacolata concezione” dove vi è Dio che dà vita all’Immacolata e la colomba che rappresenta lo Spirito Santo. La vergine è circondata da angeli, profeti, martiri, apostoli e patriarchi che rappresentano il popolo di Dio glorificato.

Il quarto, “L’incoronazione della Vergine” raffigura Maria corteggiata da angeli e incoronata dal Divin Verbo e da Dio Padre, mentre in alto aleggia la colomba rappresentante lo Spirito Santo.

In correlazione al tema del primo riquadro, vi è il quinto affresco chiamato “Il trionfo di San Michele”: l’arcangelo, protettore della città, con il suo atteggiamento di guerriero, sicuro della vittoria, è qui ritratto in lotta con i demoni, tutti nudi che precipitano in basso.

Dopo i bombardamenti del ‘43, i primi due affreschi sono stati restaurati da Arduino poiché quelli del Borremans erano stati distrutti. 

Redatto da Dalila Mastrosimone

Fonte: Rosario Salvaggio, La cattedrale di Caltanissetta, Paruzzo 2001
La cattedrale di Santa Maria la Nova a Caltanissetta
Informazioni generali


La prima pietra della chiesa di Santa Maria la Nova viene posta nel 1570. Il sito viene scelto perché già lì sorgeva dal 1539 una cappella dedicata al culto dell’Immacolata Concezione (in corrispondenza dell’attuale cappella del Santissimo Sacramento). La chiesa madre della città viene inaugurata nel 1622, ancora incompleta (ricorda questo evento la lapide marmorea posta sul terzo pilastro a destra della navata maggiore). Dal 1627 al culto della Madonna si aggiunge quello di San Michele Arcangelo.
La pianta attuale è a croce latina a tre navate, divise da sedici pilastri. Il prospetto è del 1840 (architetto Gaetano Lo Piano), con il secondo campanile ultimato nel 1852.
La pianta originaria non aveva transetto, abside e cupola: furono progettati e realizzati a partire dal 1922 dall’ingegnere Edoardo Scarlata; opere terminate in parte nel 1938 e successivamente affidate per il completamento definitivo all’architetto Gaetano Averna (cui si deve il progetto della cupola), in concomitanza con la ricostruzione dopo i danni subiti durante la II guerra mondiale (1948).
La chiesa è diventata cattedrale nel 1844, con l’istituzione della Diocesi di Caltanissetta e l’insediamento del Vescovo Mons. Antonino Stromillo.
Nell’anno 2000, mentre era Vescovo Mons. A. M. Garsia, viene realizzato l’adeguamento liturgico con la nuova cattedra del Vescovo, l’altare, gli amboni, su progetto dell’architetto Eugenio Abruzzini.

Aurelia Speziale

lunedì 2 dicembre 2019

Ester
Sesto arco

Ester venne scelta dal re come seconda moglie, dopo che la regina Vasti fu cacciata dalla corte per essersi rifiutata di prostrarsi nuda alla presenza di amici del re.
Ester fu proposta come sposa al re dal suo padre adottivo Mardocheo, che svolgeva una modesta funzione alla corte di Assuero.
Mardocheo un giorno viene a conoscenza di una congiura nei confronti del re e subito lo scrive nelle cronache reali che Assuero legge spesso. Il re dopo averla sventata, cerca subito un modo per premiare Mardocheo per la sua fedeltà e chiede consiglio ad Aman, suo primo funzionario,che alla domanda su come premiare un fidato suddito, pensando si riferisca a lui, gli dice che sarebbe stata una buona idea vestire con gli abiti regali il fidato consigliere e farlo sfilare a cavallo per la città.
Al re piace molto l'idea e incarica proprio lui di occuparsi dell'allestimento della parata.
Dopo questo avvenimento Aman viene promosso dal re alla carica più alta e gli viene dato l'anello con il sigillo regale. Come da consuetudine la corte deva prostrarsi ad Aman al suo passaggio, ma l'unico a non mostrare riverenza nei suoi confronti è proprio Mardocheo, giustificando la sua scelta perché ebreo. Mardocheo viene denunciato ad Aman che, per vendicarsi, progetta la sua impiccagione insieme allo sterminio di tutti i giudei della regione, stabilisce lo sterminio, tramite sorteggio, il tredicesimo giorno di quella stagione e all'insaputa del re manda lettere a tutte le città informandole sul giorno indicato.
Mardocheo, venendo a conoscenza dei piani di Aman, chiede aiuto ad Ester che, essendo la moglie del re, avrebbe potuto informarlo.
Assuero, venuto a conoscenza del tradimento di Aman, organizza una cena alla quale invita il suo primo consigliere insieme a Mardocheo e a sua moglie. Durante la cena Ester denuncia pubblicamente Aman che viene impiccato in seguito sullo stesso palo che fece preparare per Mardocheo.
Ester chiede al re di annullare le lettere che aveva precedentemente inviato Aman alle città, Assuero venendo inoltre a conoscenza che Mardocheo è il padre di Ester, le dice che avrebbe promosso suo padre al ruolo di primo consigliere reale fornendogli pure l'anello con il sigillo,con il quale Mardocheo avrebbe potuto spedire altre lettere.
Mardocheo scrive nelle lettere che i giudei avrebbero potuto difendersi con le armi e che si sarebbero potuti impadronire dei beni dei loro avversari.


Redatto da Andrea Alaimo

Tratto Fonte: Rosario Salvaggio, La cattedrale di Caltanissetta, Paruzzo 2001






Tobia

DECIMO ARCO


Tobi è un uomo onesto e leale. Ha compiuto molte opere di misericordia nei confronti del suo popolo, fra le quali quella di seppellire i morti. Durante una notte, stanco della giornata di lavoro, si corica ai piedi del muro per dormire. Sopra il muro c'erano alcuni passeri, i cui escrementi cadono sui suoi occhi e provocano l'inizio della cecità che poi diventa totale. Avanzato in età Tobi chiama il figlio Tobia e gli raccomanda di rispettare sempre la madre, di essere generoso con chi è fedele al Signore e di aiutare sempre i poveri.

Lo incarica di recuperare il denaro che aveva lasciato nella terra di Madian. Tobia non conosce la strada, ma non volendo disobbedire al padre, esce per cercare qualcuno che lo accompagni e gli indichi la strada. Incontra un uomo, Raffaele e, non sospettando che questo fosse un angelo, lo prega di accompagnarlo. Raffaele e Tobia partono. Mentre Tobia si lava i piedi, viene morso da un pesce e l'angelo Raffaele gli consiglia di prendere il cuore e il fegato poiché gli serviranno per scacciare ogni influsso maligno. Arrivano nella terra di Madian dove abita Rachele, Tobia si fa riconoscere come il figlio di Tobi e avanza la richiesta di avere Sara per sposa. Rachele lo avverte della morte dei primi sette mariti della ragazza, durante la prima notte di nozze, ma gli consegna ugualmente Sara. I due sposi vanno a dormire e Tobia mette sul braciere il fegato e il cuore del pesce per scacciare il demonio. Lo sposo al mattino viene trovato vivo. Raguel ringrazia Dio e viene fatto il pranzo di nozze. Tobia e Sara partono e vanno nella casa di Tobi. Raffaele dice a Tobia che suo padre recupererà la vista se gli spalmerà il fiele del pesce sugli occhi. Finita la festa, Raffaele si fa riconoscere dicendo di essere stato inviato da Dio per guarire Tobi e Sara.


GLI AFFRESCHI PRESENTI NEL DECIMO ARCO

1. Tobia brucia il fegato e il cuore del pesce. Il fumo libera Sara dal demonio che fugge.

2. Tobia viene riconosciuto dallo zio.

3. Tobi manda il figlio a Tabes per assicurargli una sposa.

4. Tobia parte e i genitori lo affidano a Raffaele.

5. Tobia cattura il grosso pesce e conserva il fiele, il cuore e il fegato. Il fumo del fegato e del cuore bruciati liberano Sara dal demonio mentre il fiele guarisce Tobi dalla cecità.

6. Raffaele si fa riconoscere come Angelo inviato da Dio.

7. Raffaele sparisce.


Tratto da Rosario Salvaggio, Gli archi della Cattedrale narrano l'Antico Testamento, Paruzzo editore 2007




Rielaborato da Gaia Bellavia


Salomone

Undicesimo arco

Salomone è figlio di Davide che ha anche un altro figlio da Betsabea. Quando Davide diventa vecchio, suo figlio Adonia comincia a prendere iniziative per succedere al padre. Intanto un gruppo di funzionari chiede a Davide di nominare suo successore il figlio Salomone. Davide conferma il suo impegno nei confronti di Salomone che immediatamente è investito re dal sacerdote Zadoc. Salomone funge da reggente del regno insieme a Davide fino alla sua morte. Adonia acconsente ad accettare la successione di Salomone dopo la morte di Davide. Però, quando Adonia chiede a Salomone di sposare Abisag, Salomone vede in questa richiesta una minaccia e fa giustiziare Adonia. Contemporaneamente Salomone espelle da Gerusalemme il sacerdote Ebiatag. Liberatosi dei nemici interni Salomone costruisce a Gerusalemme una reggia la cui realizzazione richiese tredici anni e, il suo capolavoro, il tempio di Gerusalemme.



Tratto da Rosario Salvaggio, Gli archi della Cattedrale narrano l'Antico Testamento, Paruzzo editore 2007


Rielaborato da Egle Salamone



Sansone

QUATTORDICESIMO ARCO

Sansone nasce da Monach e sua moglie, appartenenti alla tribù di Dan. La moglie di Monach un giorno assiste all'apparizione di un angelo che le annuncia che rimarrà incinta e avrà un figlio maschio, ma la ammonisce di non tagliare i capelli al figlio poiché sarebbe stato consacrato al Signore e se si fosse tagliato i capelli avrebbe perso la sua forza.
Sansone cresce ed incontra una donna filistea e, nonostante i filistei opprimessero gli israeliani, egli decide di sposarla ma durante il tragitto per fare incontrare i genitori alla ragazza, incontra un leone e lo squarcia a mani nude.
Alcuni giorni dopo trova il leone in mezzo ad uno sciame d’api che avevano già prodotto il miele, così decide di trarre dalla vicenda un indovinello da porre durante il banchetto nuziale: “Dal divoratore è venuto un cibo. Dal forte è uscito un dolce”. Se i commensali fossero riusciti ad indovinare, avrebbe regalato loro una tunica e un mantello altrimenti avrebbero dovuto dargli trenta tuniche e trenta mantelli.
La sposa di Sansone però rivela la risposta all'indovinello e Sansone pieno d’ira uccide trenta persone, abbandona la sposa e ritorna a casa di suo padre.
Dopo qualche tempo però ritorna dalla donna ma, venendo a sapere che era stata data in sposa ad un altro uomo, organizza una vendetta contro i filistei: cattura trecento volpi e lega delle torce accese alle loro code, facendo bruciare tutti i campi.
I filistei si vendicano bruciando il padre di Sansone ed egli reagisce compiendo una terribile strage.
L’altra donna presente nella vita di Sansone è una prostituta, della città filistea di Gaza, e gli abitanti, venendo a sapere della sua presenza nella città, cercano di catturarlo ma lui, afferrando la porta della città,  la scardina.
Ma la sua rovina arriva quando si innamora di Dalila, ancora una volta una donna filistea.
I capi filistei la inducono a farsi rivelare il segreto della potenza di Sansone, che lei rivela essere nei suoi capelli, infatti egli non li ha mai tagliati.
I filistei tagliano i capelli dell'uomo nel sonno, lo catturano e lo rendono cieco. Sansone, volendo vendicarsi un’ultima volta dei filistei, invoca il Signore e lo prega di concedergli la forza che aveva prima; il Signore gli concede la grazia.
Sansone quindi urlando:” Muoia Sansone con tutti i filistei” fa crollare il palazzo dove stavano tenendo una festa gli abitanti di Gaza con i loro capi, uccidendoli.


Gli affreschi del quattordicesimo arco rappresentano in ordine:

-Annuncio ai genitori della nascita di Sansone

-Sansone che squarcia il leone

-Sansone trova il favo di miele nella carcassa del leone

-Sansone porta sul monte le porte della città di Gaza

-Sansone accecato

-Sansone lega le fiaccole alle code delle volpi
Tratto da Rosario Salvaggio, Gli archi della Cattedrale narrano l'Antico Testamento, Paruzzo editore 2007

Rielaborato da Beatrice Di Gregorio