STORIE DI SAN PAOLO
A. Speziale, “Storie di san Paolo nella cattedrale di Caltanissetta”, Incontri– Rotary Club Caltanissetta, febbraio 2018, pagg. 15-17
“Negli spazi intermedi fra le lunette son da una banda sette
storie di S. Pietro dalla sua vocazione al martirio, ed altrettante di S. Paolo
dall’altra, dalla caduta da cavallo presso Damasco sino alla sua decapitazione.
Dipinture queste, che per bellezza del comporre e del colorire son veramente
degne del sovrano maestro”. Così Gioacchino Di Marzo nel 1912, nel suo scritto Guglielmo Borremans di Anversa, pittore
fiammingo in Sicilia del secolo XVIII, descrive le storie di San Pietro e
San Paolo affrescate nella cattedrale di Caltanissetta.
Per apprezzare le storie bisogna non lasciarsi distrarre
dalla ricca e mossa decorazione dei cinque ovali centrali della volta
affrescata dal Borremans e concentrarsi sullo spazio sotto, là dove, ad
intervallare i santi e le sante del territorio, sette riquadri sulla sinistra
raccontano le vicende dei due santi.
Non a caso S. Pietro e S. Paolo si affrontano in questi spazi
nella parte bassa della volta: fondano la Chiesa, con una predicazione che è
primizia (rudimentum) della fede
cristiana, come recita la colletta alla vigilia del giorno della loro festa. E
il prefazio scolpisce i rispettivi ruoli: “Pietro, che per primo confessò la
fede nel Cristo, Paolo, che illuminò le profondità del mistero; il pescatore di
Galilea, che costituì la prima comunità con i giusti di Israele, il maestro e
dottore, che annunziò la salvezza a tutte le genti. Così, con diversi doni,
hanno edificato l'unica Chiesa, e associati nella venerazione del popolo
cristiano condividono la stessa corona di gloria”.
È per questa unità nella diversità che Agostino Riva, il
parroco della cattedrale nel 1720, li volle affrescati dal Borremans ai lati
dei riquadri che raccontano di una chiesa trionfante che poggia su chi ha
gettato le fondamenta della storia della salvezza. Là dove si concentrano le
forze che sorreggono la volta troviamo Pietro e Paolo a sostenerla con il loro
speciale percorso di peccato e di redenzione.
A collaborare con il Borremans fu l’architetto Francesco
Firrigno a cui si devono le soluzioni ardite nella partizione dello spazio in
riquadri e cornici differenti tra loro, che contengono le scene figurate a mo’
di quinta scenica, con l’aggiunta di motivi vegetali, come foglie e ghirlande.
Chi entra dal portone principale deve ruotare il capo a
sinistra per cogliere il primo episodio della vita di S. Paolo: la caduta da
cavallo che segna la sua conversione (fig. 1[1]).
Questo affresco, purtroppo, è stato danneggiato dai bombardamenti che
nell’estate del ’43 fecero crollare parte della volta in corrispondenza della
facciata. La ricostruzione fu affidata nel 1954 a Nicola Arduino, un pittore di
Grugliasco esperto in affresco, da Armando Dillon, allora Soprintendente ai
Monumenti della Sicilia Occidentale. L’Arduino affrescò le scene con San Paolo
che cade da cavallo, San Paolo calato dalle mura, San Paolo in catene.
Originali del Borremans rimangono, invece San Paolo che predica all’Areopago,
San Paolo a Malta e a Roma, la decapitazione di S. Paolo.
L’Arduino si documentò prima di ricostruire gli affreschi del
Borremans che non restaurò filologicamente ma cercò di rifare adeguandosi
quanto più possibile al modello, pur senza quell’estro esuberante che
caratterizzava il pittore fiammingo, sempre più ardito negli accostamenti
cromatici e nelle composizioni figurate.
La vocazione è narrata seguendo gli Atti degli Apostoli al
capitolo 9: “All’improvviso lo avvolse una luce dal cielo e cadendo a terra udì
una voce che gli diceva: “Saulo, Saulo, perché mi perseguiti?”. Nella parte
bassa Saulo, riverso a terra, volge lo sguardo al raggio di luce che viene
dall’alto e squarcia le nubi, in una scena che è strutturata a più piani che si
intersecano in obliquo: l’uomo riverso, la prepotente fisicità del cavallo che
copre i volti in secondo piano di coloro che accompagnano il santo, gli
stendardi romani e le mura di Damasco, le nubi e la luce.
La presenza del cavallo, non attestata nelle Sacre Scritture,
è costante nell’iconografia del Santo, con il cavallo visto da retro, come
avviene anche nella Cappella Paolina affrescata da Michelangelo, o nella tela
di Caravaggio di Santa Maria del Popolo dove la posa dell’animale è più
naturale rispetto alla contorsione forzata a cui ricorre il Borremans. Non è
escluso che nella rappresentazione dell’animale ci sia il riflesso esatto degli
studi che il pittore fiammingo aveva condotto per l’illustrazione della Pietra paragone de’ cavalieri[2] per il duca di Pescolanciano durante il
suo soggiorno a Napoli.
Il confronto più stringente per la posa del Santo, con una
gamba sotto la pancia del cavallo coperto da un drappo rosso, è con dipinti di
Rubens con lo stesso tema, come una “Conversione di Saulo” conservata nella
Casa-Museo del pittore ad Anversa o un’altra variante della Courtauld Gallery
di Londra, entrambe datate al primo decennio del Seicento.
Il modulo compositivo, come accade anche per la chiamata di
Pietro, sembra inoltre ripercorrere “La conversione di Saul” di Luca Giordano,
un dipinto databile al 1680, conservato nella quadreria del Casino dell’Aurora
Pallavicini a Roma, questo con un’orchestrazione più complessa rispetto alla
nostra e certamente più drammatica. Il confronto tuttavia è reso possibile
grazie alla postura di Saul e del cavallo che taglia la scena e che rivela come
Borremans, probabilmente, nell’originale poi ripreso da Arduino, si fosse
ispirato a modelli compositivi che aveva acquisito ad Anversa e a Napoli prima
del suo definitivo trasferimento a Palermo.
Sullo sfondo della caduta si stagliano le mura di una città
turrita, poste in prospettiva ad accentuare l’obliquità del taglio: è Damasco dove
Paolo ”rimase tre giorni senza vedere e senza prendere né cibo né bevanda”.
Nella seconda scena (fig. 2) San Paolo (la fonte è sempre il
capitolo 9 degli Atti degli Apostoli) viene calato giù dalle mura di Damasco
dentro ad una cesta, per sfuggire al complotto dei Giudei che tramavano contro
di lui nell’intenzione di ucciderlo. La cesta, in realtà, è diventata un
lenzuolo con il quale, in posa assai stravagante, il Santo viene calato giù, ma
sembra levitare verso l’alto piuttosto che sentire la forza di gravità. È una
di quelle pose “a capriccio” che rendevano così peculiare l’arte del Borremans
e che Arduino ha ripreso, come l’anfiteatro nello sfondo per rendere lo spazio
della città antica dietro i beccatelli delle mura di Damasco.
Un particolare curioso è certamente legato alla torre: se
nella scena della caduta da cavallo sono presenti i merli, in questa non ve ne
è traccia. I nostri affreschi non hanno, infatti, sfondi urbani o paesaggi
naturali curati nel dettaglio, ma posti soltanto a decoro della scena, a
documentare una stagione artistica in cui l’effetto di sfondamento predomina
sul realismo dello sfondo.
Nel terzo riquadro (fig. 3), sempre opera dell’Arduino, Paolo
è in ceppi dinanzi ad un uomo togato e con eleganti calzari: potrebbe essere il
governatore Felice (Atti, cap. 24), Festo (Atti, cap. 25) o più probabilmente
il re Agrippa (Atti, cap. 26), come dimostra la presenza nella mano sinistra
dello scettro, presso i quali fu costretto a difendersi dopo essere stato messo
in catene a seguito di una sommossa scoppiata a Gerusalemme. È una scena di
taglio dialogico: a Paolo che parla fa da contraltare l’autorità romana seduta
su un trono di taglio barocco, posto su un alto basamento a gradini collocato
in prospettiva. Si scorge un edificio tardo-rinascimentale o seicentesco sullo
sfondo che nulla ha a che vedere con le austere architetture romane, mentre la
colonna scanalata alle spalle dell’uomo ha un drappo alla sommità, secondo il
gusto per il teatro ereditato dalla cultura barocca. La costruzione della
prospettiva e il punto di vista collocato in basso rendono Paolo monumentale
nel suo piglio oratorio, tanto che sulla sinistra viene collocato a bilanciare
la scena un vaso con un drappo.
Nella quarta scena (fig. 4), opera del Borremans, San Paolo è
intento a predicare: tradizionalmente si pensa che sia il momento in cui,
giunto ad Atene, si sia recato sull’Areopago per annunciare Cristo a quegli
uomini che “non avevano passatempo più gradito che parlare e sentir parlare”
(Atti, cap. 17). Ricompaiono i colori smaglianti del fiammingo, a volte anche
poco naturalistici ma sempre coinvolgenti. La scena si distingue dalle
precedenti perché affollata di personaggi, tutti caratterizzati da
abbigliamento contemporaneo e cappelli di ogni foggia: toghe, maniche rigonfie
e a sbuffo, mazzocchi e berrette. Il personaggio sulla sinistra che volge le
spalle allo spettatore ha anche la veste di tessuto damascato. Ma quello che emerge
maggiormente è, sulla destra, un uomo abbigliato come fosse un’autorità con un
berretto scarlatto che tanto somiglia al camauro papale, ma senza ermellino,
che inforca un vistoso paio di occhiali a pince-nez. Nell’agitazione della scena il Borremans ha
voluto distinguere questo dotto con l’aria sdegnata, volendolo caratterizzare
come un sacerdote, forse, e al contempo uno studioso. I sei personaggi che
circondano Paolo, che incede dinamicamente ad indicare l’energia della sua
predicazione, recano rotoli e libri in mano e si mostrano agitati e sdegnosi
nei confronti della sua predicazione. È forse la scena meglio riuscita,
certamente la più vivace, quella che mostra quell’impasto dei colori “a
capriccio” e “differente dal vero”, quelle tinte “manierose, proprie dello
stile fiammengo, ed improprie alla verità”, caratteristiche che sottolinea padre
Fedele da S. Biagio nei suoi Dialoghi familiari sopra la pittura difesa ed
esaltata dal p. Fedele da San Biagio pittore cappuccino col
sig. avvocato d. Pio Onorato (Palermo 1788).
Nel quinto riquadro (fig. 5) il Borremans si ispira al
ventottesimo capitolo degli Atti, là dove si narra che Paolo, sbarcato
fortunosamente a Malta in seguito ad una tempesta, fu accolto dagli indigeni
dell’isola, in anacronistici calzoni sulla sinistra della scena, che per
scaldarlo fecero un falò. Lì una serpe, svegliata dal calore, lo morse ad una
mano ma egli non ne fu avvelenato e la scrollò semplicemente dal dito. Jacopo
da Varagine nella “Leggenda aurea” racconta che il fatto avvenne a Mitilene,
sostenendo che lì la famiglia di colui che lo ospitava fosse rimasta per sempre
immune dal morso dei serpenti. In realtà in Sicilia esiste un culto speciale
per San Paolo come guaritore dal morso di serpenti. tant’è vero che nel passato
coloro che nascevano il 25 gennaio, data della conversione sulla via di
Damasco, potevano divenire “ciarauli”, ossia capaci, secondo le narrazioni del
Pitrè, di maneggiare i serpenti e di guarire i loro morsi.
Anche questa scena è dinamica ed affollata, collocata in uno
spazio naturale roccioso, nel quale i personaggi si muovono con eleganza ed
espressività.
Nel sesto riquadro (fig. 6), un ovale rotondo San Paolo in
catene viene trascinato dai soldati (con le armature di foggia barocca, con
l’evidente anacronismo a cui il pittore ci ha abituati), mentre un uomo si inginocchia
al suo passaggio. Probabilmente il riferimento biblico è all’ultimo capitolo
degli Atti, il ventottesimo, quando Paolo giunge a Roma in catene e viene
salutato dai fratelli al Foro di Appio e alle Tre Taverne, prima di comparire
dinanzi all’imperatore al quale si era appellato.
Anche qui la scena è costruita dinamicamente per l’affollarsi
dei personaggi (ben otto), per il variare delle fogge dei vestiti e degli elmi,
per una lancia che divide lo spazio in due in obliquo. Le pose sono eleganti,
pur nella concitazione, sottolineate dalle movenze delle mani che sono lunghe e
affusolate, secondo quell’eleganza compositiva che è la cifra espressiva del
Borremans.
Il settimo riquadro (fig. 7) è mistilineo e racconta della
decapitazione del Santo sulla via Ostiense, sotto il regno di Nerone, così come
viene narrato da Eusebio e San Girolamo, il quale afferma che Paolo fu
decapitato nello stesso giorno ed anno in cui Pietro fu crocifisso. Il modulo compositivo della decollazione ha un
preciso modello, infatti la posizione del carnefice è identica alla
“Decollazione di San Paolo” (1158-1559) di Taddeo Zuccari nella cappella di San
Paolo della chiesa di San Marcello al Corso. Potrebbe essere questa l’ulteriore
prova di un passaggio del Borremans a Roma[3].
Lasciando la centralità della scena al Santo orante,
illuminato da un fascio di luce che viene dall’alto, quasi a chiudere la
narrazione avviata sulla via di Damasco, il Borremans nella nudità del
carnefice amplifica la crudezza del gesto di sollevare la spada per recidere il
capo, dinanzi al soldato in ricca armatura sulla sinistra e a personaggi oranti
sulla destra. La scena è ambientata in un paesaggio naturale (la via Ostiense)
ed è strutturata su più piani nei quali si avvicendano le figure che fanno da sfondo,
che sembrano progressivamente sbiadire in profondità.
Il capo sembra qui essere protagonista della scena quel capo
che è protagonista del dittico trascritto a San Pietro in Vincoli “Laetus
procubuit Paulus cervice secanda, cui caput est Christus despicit ipse suum”.
Il Santo non teme che gli venga recisa la testa perché riconosce in Cristo il
centro della sua vita, al punto da provare disprezzo per la propria.
Con questa scena, la più drammatica delle sette, il Borremans
chiude la storia del Santo, che tuttavia è solo un punto di svolta per i
trionfi del registro successivo. Non a caso nella parete di fondo della
cattedrale, dove l’architetto Ferrigno aveva creato il suo capolavoro e il
Borremans aveva dipinto l’Immacolata in gloria, incontriamo Paolo ai piedi
della Vergine, con la spada a due tagli, a simboleggiare la parola di Dio che
consente all’uomo di distinguere il bene e il male.
La conclusione della vicenda terrena del Santo, dunque, non è
segnata dal martirio ma dal trionfo che attende coloro che verso Cristo, in
corrispondenza dell’altare, tengono fisso il loro sguardo.
Aurelia Speziale
[1] Tutte le
immagini sono tratte dal volume di AAVV Il
Restauro della Cattedrale di Caltanissetta, Editore Salvatore Sciascia,
Caltanissetta 2001
[2] AAVV, Per Citti Siracusano. Studi sulla pittura
del Settecento in Sicilia. Magika, Messina 2012pp. 39-43 e 51-56.
[3] F.
ABBATE, Storia dell’arte nell’Italia meridionale.
Il mezzogiorno austriaco e borbonico, Donzelli Roma 2009, p. 621