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martedì 10 dicembre 2019

STORIE DI SAN PAOLO

A. Speziale, “Storie di san Paolo nella cattedrale di Caltanissetta”, Incontri– Rotary Club Caltanissetta, febbraio 2018, pagg. 15-17



“Negli spazi intermedi fra le lunette son da una banda sette storie di S. Pietro dalla sua vocazione al martirio, ed altrettante di S. Paolo dall’altra, dalla caduta da cavallo presso Damasco sino alla sua decapitazione. Dipinture queste, che per bellezza del comporre e del colorire son veramente degne del sovrano maestro”. Così Gioacchino Di Marzo nel 1912, nel suo scritto Guglielmo Borremans di Anversa, pittore fiammingo in Sicilia del secolo XVIII, descrive le storie di San Pietro e San Paolo affrescate nella cattedrale di Caltanissetta.
Per apprezzare le storie bisogna non lasciarsi distrarre dalla ricca e mossa decorazione dei cinque ovali centrali della volta affrescata dal Borremans e concentrarsi sullo spazio sotto, là dove, ad intervallare i santi e le sante del territorio, sette riquadri sulla sinistra raccontano le vicende dei due santi.
Non a caso S. Pietro e S. Paolo si affrontano in questi spazi nella parte bassa della volta: fondano la Chiesa, con una predicazione che è primizia (rudimentum) della fede cristiana, come recita la colletta alla vigilia del giorno della loro festa. E il prefazio scolpisce i rispettivi ruoli: “Pietro, che per primo confessò la fede nel Cristo, Paolo, che illuminò le profondità del mistero; il pescatore di Galilea, che costituì la prima comunità con i giusti di Israele, il maestro e dottore, che annunziò la salvezza a tutte le genti. Così, con diversi doni, hanno edificato l'unica Chiesa, e associati nella venerazione del popolo cristiano condividono la stessa corona di gloria”.
È per questa unità nella diversità che Agostino Riva, il parroco della cattedrale nel 1720, li volle affrescati dal Borremans ai lati dei riquadri che raccontano di una chiesa trionfante che poggia su chi ha gettato le fondamenta della storia della salvezza. Là dove si concentrano le forze che sorreggono la volta troviamo Pietro e Paolo a sostenerla con il loro speciale percorso di peccato e di redenzione.
A collaborare con il Borremans fu l’architetto Francesco Firrigno a cui si devono le soluzioni ardite nella partizione dello spazio in riquadri e cornici differenti tra loro, che contengono le scene figurate a mo’ di quinta scenica, con l’aggiunta di motivi vegetali, come foglie e ghirlande.
Chi entra dal portone principale deve ruotare il capo a sinistra per cogliere il primo episodio della vita di S. Paolo: la caduta da cavallo che segna la sua conversione (fig. 1[1]). Questo affresco, purtroppo, è stato danneggiato dai bombardamenti che nell’estate del ’43 fecero crollare parte della volta in corrispondenza della facciata. La ricostruzione fu affidata nel 1954 a Nicola Arduino, un pittore di Grugliasco esperto in affresco, da Armando Dillon, allora Soprintendente ai Monumenti della Sicilia Occidentale. L’Arduino affrescò le scene con San Paolo che cade da cavallo, San Paolo calato dalle mura, San Paolo in catene. Originali del Borremans rimangono, invece San Paolo che predica all’Areopago, San Paolo a Malta e a Roma, la decapitazione di S. Paolo.
L’Arduino si documentò prima di ricostruire gli affreschi del Borremans che non restaurò filologicamente ma cercò di rifare adeguandosi quanto più possibile al modello, pur senza quell’estro esuberante che caratterizzava il pittore fiammingo, sempre più ardito negli accostamenti cromatici e nelle composizioni figurate.
La vocazione è narrata seguendo gli Atti degli Apostoli al capitolo 9: “All’improvviso lo avvolse una luce dal cielo e cadendo a terra udì una voce che gli diceva: “Saulo, Saulo, perché mi perseguiti?”. Nella parte bassa Saulo, riverso a terra, volge lo sguardo al raggio di luce che viene dall’alto e squarcia le nubi, in una scena che è strutturata a più piani che si intersecano in obliquo: l’uomo riverso, la prepotente fisicità del cavallo che copre i volti in secondo piano di coloro che accompagnano il santo, gli stendardi romani e le mura di Damasco, le nubi e la luce.
La presenza del cavallo, non attestata nelle Sacre Scritture, è costante nell’iconografia del Santo, con il cavallo visto da retro, come avviene anche nella Cappella Paolina affrescata da Michelangelo, o nella tela di Caravaggio di Santa Maria del Popolo dove la posa dell’animale è più naturale rispetto alla contorsione forzata a cui ricorre il Borremans. Non è escluso che nella rappresentazione dell’animale ci sia il riflesso esatto degli studi che il pittore fiammingo aveva condotto per l’illustrazione della Pietra paragone de’ cavalieri[2] per il duca di Pescolanciano durante il suo soggiorno a Napoli.
Il confronto più stringente per la posa del Santo, con una gamba sotto la pancia del cavallo coperto da un drappo rosso, è con dipinti di Rubens con lo stesso tema, come una “Conversione di Saulo” conservata nella Casa-Museo del pittore ad Anversa o un’altra variante della Courtauld Gallery di Londra, entrambe datate al primo decennio del Seicento.
Il modulo compositivo, come accade anche per la chiamata di Pietro, sembra inoltre ripercorrere “La conversione di Saul” di Luca Giordano, un dipinto databile al 1680, conservato nella quadreria del Casino dell’Aurora Pallavicini a Roma, questo con un’orchestrazione più complessa rispetto alla nostra e certamente più drammatica. Il confronto tuttavia è reso possibile grazie alla postura di Saul e del cavallo che taglia la scena e che rivela come Borremans, probabilmente, nell’originale poi ripreso da Arduino, si fosse ispirato a modelli compositivi che aveva acquisito ad Anversa e a Napoli prima del suo definitivo trasferimento a Palermo.
Sullo sfondo della caduta si stagliano le mura di una città turrita, poste in prospettiva ad accentuare l’obliquità del taglio: è Damasco dove Paolo ”rimase tre giorni senza vedere e senza prendere né cibo né bevanda”.
Nella seconda scena (fig. 2) San Paolo (la fonte è sempre il capitolo 9 degli Atti degli Apostoli) viene calato giù dalle mura di Damasco dentro ad una cesta, per sfuggire al complotto dei Giudei che tramavano contro di lui nell’intenzione di ucciderlo. La cesta, in realtà, è diventata un lenzuolo con il quale, in posa assai stravagante, il Santo viene calato giù, ma sembra levitare verso l’alto piuttosto che sentire la forza di gravità. È una di quelle pose “a capriccio” che rendevano così peculiare l’arte del Borremans e che Arduino ha ripreso, come l’anfiteatro nello sfondo per rendere lo spazio della città antica dietro i beccatelli delle mura di Damasco.
Un particolare curioso è certamente legato alla torre: se nella scena della caduta da cavallo sono presenti i merli, in questa non ve ne è traccia. I nostri affreschi non hanno, infatti, sfondi urbani o paesaggi naturali curati nel dettaglio, ma posti soltanto a decoro della scena, a documentare una stagione artistica in cui l’effetto di sfondamento predomina sul realismo dello sfondo.
Nel terzo riquadro (fig. 3), sempre opera dell’Arduino, Paolo è in ceppi dinanzi ad un uomo togato e con eleganti calzari: potrebbe essere il governatore Felice (Atti, cap. 24), Festo (Atti, cap. 25) o più probabilmente il re Agrippa (Atti, cap. 26), come dimostra la presenza nella mano sinistra dello scettro, presso i quali fu costretto a difendersi dopo essere stato messo in catene a seguito di una sommossa scoppiata a Gerusalemme. È una scena di taglio dialogico: a Paolo che parla fa da contraltare l’autorità romana seduta su un trono di taglio barocco, posto su un alto basamento a gradini collocato in prospettiva. Si scorge un edificio tardo-rinascimentale o seicentesco sullo sfondo che nulla ha a che vedere con le austere architetture romane, mentre la colonna scanalata alle spalle dell’uomo ha un drappo alla sommità, secondo il gusto per il teatro ereditato dalla cultura barocca. La costruzione della prospettiva e il punto di vista collocato in basso rendono Paolo monumentale nel suo piglio oratorio, tanto che sulla sinistra viene collocato a bilanciare la scena un vaso con un drappo.
Nella quarta scena (fig. 4), opera del Borremans, San Paolo è intento a predicare: tradizionalmente si pensa che sia il momento in cui, giunto ad Atene, si sia recato sull’Areopago per annunciare Cristo a quegli uomini che “non avevano passatempo più gradito che parlare e sentir parlare” (Atti, cap. 17). Ricompaiono i colori smaglianti del fiammingo, a volte anche poco naturalistici ma sempre coinvolgenti. La scena si distingue dalle precedenti perché affollata di personaggi, tutti caratterizzati da abbigliamento contemporaneo e cappelli di ogni foggia: toghe, maniche rigonfie e a sbuffo, mazzocchi e berrette. Il personaggio sulla sinistra che volge le spalle allo spettatore ha anche la veste di tessuto damascato. Ma quello che emerge maggiormente è, sulla destra, un uomo abbigliato come fosse un’autorità con un berretto scarlatto che tanto somiglia al camauro papale, ma senza ermellino, che inforca un vistoso paio di occhiali a pince-nez.  Nell’agitazione della scena il Borremans ha voluto distinguere questo dotto con l’aria sdegnata, volendolo caratterizzare come un sacerdote, forse, e al contempo uno studioso. I sei personaggi che circondano Paolo, che incede dinamicamente ad indicare l’energia della sua predicazione, recano rotoli e libri in mano e si mostrano agitati e sdegnosi nei confronti della sua predicazione. È forse la scena meglio riuscita, certamente la più vivace, quella che mostra quell’impasto dei colori “a capriccio” e “differente dal vero”, quelle tinte “manierose, proprie dello stile fiammengo, ed improprie alla verità”, caratteristiche che sottolinea padre Fedele da S. Biagio nei suoi Dialoghi familiari sopra la pittura difesa ed esaltata dal p. Fedele da San Biagio pittore cappuccino col sigavvocato dPio Onorato (Palermo 1788).
Nel quinto riquadro (fig. 5) il Borremans si ispira al ventottesimo capitolo degli Atti, là dove si narra che Paolo, sbarcato fortunosamente a Malta in seguito ad una tempesta, fu accolto dagli indigeni dell’isola, in anacronistici calzoni sulla sinistra della scena, che per scaldarlo fecero un falò. Lì una serpe, svegliata dal calore, lo morse ad una mano ma egli non ne fu avvelenato e la scrollò semplicemente dal dito. Jacopo da Varagine nella “Leggenda aurea” racconta che il fatto avvenne a Mitilene, sostenendo che lì la famiglia di colui che lo ospitava fosse rimasta per sempre immune dal morso dei serpenti. In realtà in Sicilia esiste un culto speciale per San Paolo come guaritore dal morso di serpenti. tant’è vero che nel passato coloro che nascevano il 25 gennaio, data della conversione sulla via di Damasco, potevano divenire “ciarauli”, ossia capaci, secondo le narrazioni del Pitrè, di maneggiare i serpenti e di guarire i loro morsi.
Anche questa scena è dinamica ed affollata, collocata in uno spazio naturale roccioso, nel quale i personaggi si muovono con eleganza ed espressività.
Nel sesto riquadro (fig. 6), un ovale rotondo San Paolo in catene viene trascinato dai soldati (con le armature di foggia barocca, con l’evidente anacronismo a cui il pittore ci ha abituati), mentre un uomo si inginocchia al suo passaggio. Probabilmente il riferimento biblico è all’ultimo capitolo degli Atti, il ventottesimo, quando Paolo giunge a Roma in catene e viene salutato dai fratelli al Foro di Appio e alle Tre Taverne, prima di comparire dinanzi all’imperatore al quale si era appellato.
Anche qui la scena è costruita dinamicamente per l’affollarsi dei personaggi (ben otto), per il variare delle fogge dei vestiti e degli elmi, per una lancia che divide lo spazio in due in obliquo. Le pose sono eleganti, pur nella concitazione, sottolineate dalle movenze delle mani che sono lunghe e affusolate, secondo quell’eleganza compositiva che è la cifra espressiva del Borremans.
Il settimo riquadro (fig. 7) è mistilineo e racconta della decapitazione del Santo sulla via Ostiense, sotto il regno di Nerone, così come viene narrato da Eusebio e San Girolamo, il quale afferma che Paolo fu decapitato nello stesso giorno ed anno in cui Pietro fu crocifisso.  Il modulo compositivo della decollazione ha un preciso modello, infatti la posizione del carnefice è identica alla “Decollazione di San Paolo” (1158-1559) di Taddeo Zuccari nella cappella di San Paolo della chiesa di San Marcello al Corso. Potrebbe essere questa l’ulteriore prova di un passaggio del Borremans a Roma[3].  
Lasciando la centralità della scena al Santo orante, illuminato da un fascio di luce che viene dall’alto, quasi a chiudere la narrazione avviata sulla via di Damasco, il Borremans nella nudità del carnefice amplifica la crudezza del gesto di sollevare la spada per recidere il capo, dinanzi al soldato in ricca armatura sulla sinistra e a personaggi oranti sulla destra. La scena è ambientata in un paesaggio naturale (la via Ostiense) ed è strutturata su più piani nei quali si avvicendano le figure che fanno da sfondo, che sembrano progressivamente sbiadire in profondità.
Il capo sembra qui essere protagonista della scena quel capo che è protagonista del dittico trascritto a San Pietro in Vincoli “Laetus procubuit Paulus cervice secanda, cui caput est Christus despicit ipse suum”. Il Santo non teme che gli venga recisa la testa perché riconosce in Cristo il centro della sua vita, al punto da provare disprezzo per la propria.
Con questa scena, la più drammatica delle sette, il Borremans chiude la storia del Santo, che tuttavia è solo un punto di svolta per i trionfi del registro successivo. Non a caso nella parete di fondo della cattedrale, dove l’architetto Ferrigno aveva creato il suo capolavoro e il Borremans aveva dipinto l’Immacolata in gloria, incontriamo Paolo ai piedi della Vergine, con la spada a due tagli, a simboleggiare la parola di Dio che consente all’uomo di distinguere il bene e il male.
La conclusione della vicenda terrena del Santo, dunque, non è segnata dal martirio ma dal trionfo che attende coloro che verso Cristo, in corrispondenza dell’altare, tengono fisso il loro sguardo.
Aurelia Speziale


[1] Tutte le immagini sono tratte dal volume di AAVV Il Restauro della Cattedrale di Caltanissetta, Editore Salvatore Sciascia, Caltanissetta 2001
[2] AAVV, Per Citti Siracusano. Studi sulla pittura del Settecento in Sicilia. Magika, Messina 2012pp. 39-43 e 51-56.
[3] F. ABBATE, Storia dell’arte nell’Italia meridionale. Il mezzogiorno austriaco e borbonico, Donzelli Roma 2009, p. 621


La Cattedrale di Caltanissetta e l’iconografia di S. Pietro

Da A. Speziale, La cattedrale di Caltanissetta e l’iconografia di San Pietro, in Parrocchia San Pietro, Caltanissetta. Da quarant’anni comunità di battezzati. Caltanissetta, Paruzzo Editore dicembre 2017, pp. 169-179

La chiesa di Santa Maria la Nova a Caltanissetta, inaugurata nel 1622 e divenuta Cattedrale nel 1844 con l’istituzione della Diocesi, deve il suo impianto decorativo all’iniziativa del parroco Agostino Riva che nel 1718 decise di affidare, grazie ad una generosa offerta di denaro da parte del canonico Raffaele Riccobene, la decorazione della navata principale al pittore fiammingo Guglielmo Borremans.
Il progetto del parroco era ambizioso: nei pilastri, ciascuno dei quali reggeva una statua di apostolo, doveva essere raccontato l’Antico Testamento, nella volta, invece, il trionfo della Chiesa, attraverso la lotta vittoriosa della Fede sul Paganesimo, l’Ebraismo, l’Eresia e l’Islam; la gloria di Cristo  fra santi; l’Immacolata Concezione, con apostoli, patriarchi, profeti, padri e dottori della Chiesa; l’incoronazione della Vergine tra patriarchi e profeti; l’arcangelo Michele che caccia Lucifero e fa precipitare i ribelli nell’abisso. Tra i riquadri e in corrispondenza delle finestre le vele dovevano raccontare storie di santità legate ai culti locali, mentre tra una vela e l’altra prendevano posto storie della vita di San Pietro da un lato e di san Paolo dall’altro. Gli spazi erano stati magistralmente scanditi grazie all’opera dell’architetto Francesco Ferrigno, anima delle partiture nello spazio.
Il trionfo della Chiesa, dunque, poggia sulla santità di coloro che hanno guidato nel tempo e nello spazio il popolo di Dio, orientandolo con la predicazione e con l’esempio, in particolare su Pietro e Paolo che, pur nella loro diversità, hanno gettato il seme affinché la comunità dei seguaci di Cristo fruttifichi e si rafforzi.
A sottolineare la pluralità della loro predicazione Pietro e Paolo si affrontano sui due lati della volta in sette differenti riquadri posti tra le vele, “dipinture queste”, come afferma il Di Marzo nel 1912, “che per bellezza del comporre e del colorire son veramente degne del sovrano maestro[1]”.
Bisogna, tuttavia, evidenziare come non tutti i riquadri che raccontano di S. Pietro sono attribuibili al Borremans, in quanto il tetto della Cattedrale fu squarciato durante la II guerra mondiale, in occasione dell’ingresso degli alleati in Sicilia. La copertura, in corrispondenza del portone centrale crollò, portando con sé i meravigliosi affreschi del Fiammingo. Per questo motivo le scene della vita di S. Pietro in parte sono da attribuire a Nicola Arduino, pittore piemontese studioso del Tiepolo, che seguendo le testimonianze, cercò di ricostruire le scene del Borremans, cercando di imitarne i colori e le movenze.
L’Arduino cercò di armonizzare il proprio lavoro con l’originale, raccogliendo tutte le testimonianze possibili per evitare di allontanarsi troppo dal Borremans. Il pittore tradisce certamente uno stile più sobrio e lineare e un gusto meno marcato per il colore che in Borremans era, secondo p. Fedele da S. Biagio, “a capriccio” e “specialmente nelle carnaggioni differente dal vero[2]”. Gli manca, in particolare, quel “violetto di Marte” nel quale il Borremans eccelleva, colore poco naturalistico ma di grande impatto visivo, nel quale il visitatore della Cattedrale si imbatte con stupore.
Entrando in Cattedrale la prima scena, sulla sinistra, racconta la vocazione di Pietro ed è opera dell’Arduino (la firma dell’artista è in basso a sinistra), probabilmente senza i colori smaglianti che dovevano caratterizzare l’originale. Cristo invita Pietro, accovacciato sulla sua barca, mentre regge con la mano destra le reti, a seguirlo come “pescatore di uomini”. Dal punto di vista iconografico il santo è riconoscibile dalla barba, dai tratti popolani ed è stempiato e sulla barca, icona della Chiesa, mentre regge le reti. Le vesti sono nei colori tradizionali: il mantello giallo e la tunica in azzurro.
La composizione è dinamica per la posa del Cristo incedente e per la presenza dell’albero dell’imbarcazione inclinato e delle nubi bianco-rosate che agitano un cielo azzurrino.
Il modello compositivo non appartiene né al Borremans né all’Arduino, ma è rintracciabile in Luca Giordano (“Vocazione dei Santi Pietro ed Andrea” al Frick Museum di Pittsburgh - https://collection.thefrickpittsburgh.org/objects/37), anche se del Giordano il nostro attenua le movenze e semplifica il numero delle figure.
La seconda scena, sempre dell’Arduino, racconta della consegna delle chiavi, secondo la versione dell’evangelista Matteo: “A te darò le chiavi del regno dei cieli” (Mt 16, 17-19), il testo che sottolinea il primato petrino che nel periodo della Riforma aveva suscitato tante controversie. Probabilmente nell’ottica del parroco Riva e del Borremans questa doveva essere una scena cruciale a sottolineare il primato del Papa e della Chiesa Cattolica in materia di fede.
Lo sfondo è fortemente classicheggiante, per la presenza di solidi elementi architettonici, quali colonne ed archi modanati che si stagliano sul consueto cielo mosso da nubi. Anche qui le pose sono accentuate, gli abiti mossi, lo sguardo tra Cristo e Pietro intensissimo.
La presenza degli elementi architettonici potrebbe rimandare al Vangelo di Matteo: “Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia chiesa”, che spiegherebbe anche perché Gesù stia saldo in cima al secondo dei due gradini su cui poggiano le figure, mentre Pietro, seppur inginocchiato, sembra salire dal basso, in una posa innaturale. Si potrebbe leggere la scena come un’ulteriore sottolineatura del primato della Chiesa Cattolica, che poggia le sue basi sulla diretta e solida predicazione di Cristo. L’apertura verso lo spazio aperto sulla destra, che fa da contraltare all’edificio solidissimo sulla sinistra, crea la percezione interno/esterno che connota la predicazione della Chiesa Cattolica.
Non mancano due deliziose ghirlande rococò alla sommità della scena, che forse erano nell’originale del Borremans e che, in ogni caso, lo rievocano.
Nel terzo riquadro, di forma ovale, Pietro è rappresentato come pastore di pecore (GV 21,15-17), facendo riferimento anche alla I lettera che gli viene attribuita. Anche quest’opera è certamente dell’Arduino che la firma, ed ha come protagonista il Santo con uno sguardo accorto e mite che si volge verso le pecore, con un gesto che sembra chiamarle a raccolta su uno sfondo naturale molto poco caratterizzato. Da notare la presenza della ferula, il bastone che richiama l’asta che adopera il Papa come simbolo della sua potestà. Il quarto riquadro, riccamente modanato, è opera del Borremans, del quale si riconosce l’eleganza raffinata nella costruzione delle figure, che sono mosse e raffinate nelle movenze, flessuosamente atteggiate. Pietro è addormentato su un basamento in pietra squadrata, poggia la testa sul suo braccio destro, si allunga obliquamente nello spazio in basso della scena. Se il suo capo conserva traccia dei tratti popolani (è quasi calvo, con i capelli rimasti e la barba folti, bianchi e ricci), raffinatissimi sono i particolari: è elegantemente appoggiato, mani e piedi scalzi affusolati e curati, veste ben composta. In altro angeli reggono un telone che regge animali.
L’episodio è narrato in Atti degli Apostoli, al capitolo 10: Pietro sogna un lenzuolo pieno di animali impuri, mentre una voce dal cielo lo invita ad uccidere e mangiare, perché “Ciò che Dio ha purificato, tu non puoi più chiamarlo profano”. È l’invito ad accogliere nella comunità dei Cristiani anche i non circoncisi. Due elegantissimi angeli reggono il lenzuolo, uno dei quali con la bocca aperta sembra cantare. Mentre l’angelo di destra è vestito, quello di sinistra si allunga nello spazio esibendo un nudo giovanile molto bello ed allungato, quasi nelle movenze della danza. La presenza degli angeli è un tratto costante in S. Maria la Nova, che era dedicata anche a S. Michele, patrono della città che ha verso l’Arcangelo una speciale devozione.
L’insieme è illuminato dai colori chiari e cangianti che rendono mosso il cielo e il paesaggio retrostante. Anche qui due ricche ghirlande con fiori chiari pendono dalle modanature, quasi a sottolineare la finzione nella rappresentazione, l’effetto scenografico e teatrale.
Nella quinta scena Pietro fugge dal carcere. Il riferimento è al cap. 12 degli Atti degli Apostoli: i fatti narrati si collocano tra il 41 e il 44, sotto il regno di Erode, quando si scatenò una persecuzione contro i Cristiani e fu arrestato Pietro, “consegnandolo in custodia a quattro picchetti di quattro soldati ciascuno”. Pietro stava dormendo, piantonato da due soldati, quando comparve un angelo che “toccò il fianco di Pietro”, lo invitò a legarsi la cintura e mettersi i sandali, avvolgendosi il mantello per seguirlo. La scena, assai dinamica, ripercorre passo passo il brano del Nuovo Testamento: Pietro è appena uscito dalla sua cella, viene preso dall’angelo per un lembo della veste e reca il mantello allacciato e i sandali ai piedi.
L’angelo è un puttino biondo dalla veste svolazzante. Sembra di sentire quello che padre Fedele da S. Biagio afferma nei suoi “Dialoghi sopra la pittura”: c’è “qualche scorrezione di proporzione nelle sue figure”, attribuendogli qualche bizzarria, nonostante la capacità di lavorare con rapidità ed ingegno. E bizzarri sono certamente i due soldati con elmo e corazza di taglio anacronistico, in quanto armature a piastra del tempo e non certamente romane, come si evince in particolare dall’elmo e dagli spallacci, che assecondano la postura scomposta dei due dormienti.
La calzamaglia e le calzature amplificano la sensazione di spaesamento, in quanto collocabili in un’altra dimensione temporale rispetto alla semplicità dell’abito e dei sandali di Pietro.
Altrettanto bizzarra l’architettura isodoma del carcere, in pietra tagliata, che rivela un’eleganza assai lontana dalle esigenze di un edificio di detenzione.
Anche qui la fuga sembra avvenire a passo di danza e la gestualità è sottolineata e innaturale, come innaturale è la veste dell’angelo che si apre spumeggiante attorno alla figura.
La sesta e la settima scena raccontano della vita di S. Pietro attingendo alle fonti della tradizione piuttosto che alle sacre scritture. Gli episodi si collocano a Roma dove la vita del santo si è conclusa con il martirio.
Il sesto riquadro, dal campo ovale, è stato erroneamente interpretato come il battesimo del centurione Cornelio, ma in realtà si riferisce alla conversione dei santi Processo e Martiniano per i precisi riferimenti iconografici presenti nella scena.
Il santo è in catene e dunque l’ambientazione coincide con il carcere Mamertino (o Tullianum), dove la tradizione vuole che Pietro sia stato tenuto prigioniero a Roma. Capiamo che si tratta del carcere in questione dalla presenza della sorgente d’acqua che sgorga dentro la prigione, in quanto la tradizione attribuisce a Pietro il miracolo della fonte, nel momento in cui i suoi due carcerieri si convertono e il battesimo può avvenire. I due poi chiedono a Pietro di fuggire dicendogli: “O Signore, vai dove vuoi, giacché noi pensiamo che ormai l'imperatore si è dimenticato di te” (...) Dopo che nel carcere Mamertino tu ci hai battezzati nel nome della Trinità Santissima, facendo sgorgare una fonte dalla rupe, con la preghiera e il segno della croce, tu sei andato liberamente dove hai voluto e nessuno ti ha molestato».
L’indice di Pietro rivolto verso l’esterno può indicare la volontà di Pietro di recarsi fuori dal carcere, inizialmente per allontanarsi da Roma dove, sulla via Appia, incontrerà Cristo a cui chiederà “Domine, quo vadis?”, episodio che lo condurrà nuovamente nella capitale dell’impero per subire il martirio. La storia è narrata dal “Martyrium Beati Petri Apostoli” dello Pseudo-Lino.
L’ultima scena racconta del martirio ed è stata costruita iconograficamente sulla scorta de “La crocifissione di Pietro” di Luca Giordano (Venezia, Gallerie dell’Accademia), un dipinto datato al 1660 che Borremans rievoca nella posizione fortemente obliqua della croce, con la presenza sulla sinistra del carceriere che tira la fune, con il soldato sulla destra in armatura contemporanea. La presenza degli angeli, attestata dal racconto dello Pseudo-Lino, che il Giordano collocava a riempire il cielo fosco di nubi, qui sembra evocata da un personaggio che si incunea in modo poco naturale tra la croce e il carceriere. Dal cielo luminosissimo vengono emessi raggi di luce. Anche qui troviamo il bizzarro anacronismo del soldato portabandiera e la presenza delle due ghirlande a chiudere la scena cadenti dalla sommità delle modanature.
La drammaticità si stempera anche nelle figure dei due bruti carcerieri che, pur con vesti da lavoro ed in evidente condizione di fatica, non riescono a rendere appieno la tragicità del momento, dinanzi alle vesti svolazzanti e ben composte e alla gestualità sempre contenuta ed elegante di Pietro. Il “tocco seducente” di cui parla il Di Marzo non viene meno neanche nelle rappresentazioni più tragiche e mosse.  

Aurelia Speziale


[1] Per una panoramica completa dei lavori di Gioacchino Di Marzo su Borremans si consiglia una visita al sito http://www.casateatromassimo.it/vivapalermo/BorremansOnLine/index.html
[2] Dialoghi familiari sopra la pittura difesa ed esaltata dal p. Fedele da San Biagio pittore cappuccino col sig. avvocato d. Pio Onorato... (Palermo 1788), dedicati al duca d'Angiò, 1788 -  Giorno decimoquarto



La Vergine del Carmelo con i profeti Elia ed Eliseo e i Santi giovanni Battista, Stefano, Francesco di Assisi e Luca Evangelista
di Filippo Paladini


Il dipinto (firmato e datato sul libro: FILIPPO PALADINI FIORENTINO PINGEBAT 16..4) si trova nella chiesa di Santa Maria La Nova ma è proveniente dalla chiesa del Carmine. E' forse identificabile con quella pregevolissima “tela della Madonna del Carmelo coi santi Simone Stochio, Stefano e l’Evangelista S. Luca del Facciponte”, sita nella chiesa di Maria SS. Annunziata.
Nel dipinto lo spirito è devozionale ed è presente la fedeltà estetica alla cultura dello Studiolo fiorentino, specie attraverso la modulazione plastico-luministica delle figure, di spirito e sensibilità nuova.

Nella risonante dialettica di luce ed ombra delle sue pieghe, in cui chiaramente prevale la luce, così come su tutto prevalgono la fede e la grazia nelle epiche lettere dell’Apostolo di Tarso.

Con probabile riferimento a questa tela vi è un disegno di un noto taccuino siracusano e precisamente una figura virile in piedi con doppio profilo di testa.

Redatto da: Egle Salamone

Fonte: AAVV, La pittura nel nisseno dal XVI al XVIII secolo, Salvatore Sciascia 2001