Wikipedia
Risultati di ricerca
venerdì 24 aprile 2020
giovedì 27 febbraio 2020
martedì 10 dicembre 2019
STORIE DI SAN PAOLO
A. Speziale, “Storie di san Paolo nella cattedrale di Caltanissetta”, Incontri– Rotary Club Caltanissetta, febbraio 2018, pagg. 15-17
“Negli spazi intermedi fra le lunette son da una banda sette
storie di S. Pietro dalla sua vocazione al martirio, ed altrettante di S. Paolo
dall’altra, dalla caduta da cavallo presso Damasco sino alla sua decapitazione.
Dipinture queste, che per bellezza del comporre e del colorire son veramente
degne del sovrano maestro”. Così Gioacchino Di Marzo nel 1912, nel suo scritto Guglielmo Borremans di Anversa, pittore
fiammingo in Sicilia del secolo XVIII, descrive le storie di San Pietro e
San Paolo affrescate nella cattedrale di Caltanissetta.
Per apprezzare le storie bisogna non lasciarsi distrarre
dalla ricca e mossa decorazione dei cinque ovali centrali della volta
affrescata dal Borremans e concentrarsi sullo spazio sotto, là dove, ad
intervallare i santi e le sante del territorio, sette riquadri sulla sinistra
raccontano le vicende dei due santi.
Non a caso S. Pietro e S. Paolo si affrontano in questi spazi
nella parte bassa della volta: fondano la Chiesa, con una predicazione che è
primizia (rudimentum) della fede
cristiana, come recita la colletta alla vigilia del giorno della loro festa. E
il prefazio scolpisce i rispettivi ruoli: “Pietro, che per primo confessò la
fede nel Cristo, Paolo, che illuminò le profondità del mistero; il pescatore di
Galilea, che costituì la prima comunità con i giusti di Israele, il maestro e
dottore, che annunziò la salvezza a tutte le genti. Così, con diversi doni,
hanno edificato l'unica Chiesa, e associati nella venerazione del popolo
cristiano condividono la stessa corona di gloria”.
È per questa unità nella diversità che Agostino Riva, il
parroco della cattedrale nel 1720, li volle affrescati dal Borremans ai lati
dei riquadri che raccontano di una chiesa trionfante che poggia su chi ha
gettato le fondamenta della storia della salvezza. Là dove si concentrano le
forze che sorreggono la volta troviamo Pietro e Paolo a sostenerla con il loro
speciale percorso di peccato e di redenzione.
A collaborare con il Borremans fu l’architetto Francesco
Firrigno a cui si devono le soluzioni ardite nella partizione dello spazio in
riquadri e cornici differenti tra loro, che contengono le scene figurate a mo’
di quinta scenica, con l’aggiunta di motivi vegetali, come foglie e ghirlande.
Chi entra dal portone principale deve ruotare il capo a
sinistra per cogliere il primo episodio della vita di S. Paolo: la caduta da
cavallo che segna la sua conversione (fig. 1[1]).
Questo affresco, purtroppo, è stato danneggiato dai bombardamenti che
nell’estate del ’43 fecero crollare parte della volta in corrispondenza della
facciata. La ricostruzione fu affidata nel 1954 a Nicola Arduino, un pittore di
Grugliasco esperto in affresco, da Armando Dillon, allora Soprintendente ai
Monumenti della Sicilia Occidentale. L’Arduino affrescò le scene con San Paolo
che cade da cavallo, San Paolo calato dalle mura, San Paolo in catene.
Originali del Borremans rimangono, invece San Paolo che predica all’Areopago,
San Paolo a Malta e a Roma, la decapitazione di S. Paolo.
L’Arduino si documentò prima di ricostruire gli affreschi del
Borremans che non restaurò filologicamente ma cercò di rifare adeguandosi
quanto più possibile al modello, pur senza quell’estro esuberante che
caratterizzava il pittore fiammingo, sempre più ardito negli accostamenti
cromatici e nelle composizioni figurate.
La vocazione è narrata seguendo gli Atti degli Apostoli al
capitolo 9: “All’improvviso lo avvolse una luce dal cielo e cadendo a terra udì
una voce che gli diceva: “Saulo, Saulo, perché mi perseguiti?”. Nella parte
bassa Saulo, riverso a terra, volge lo sguardo al raggio di luce che viene
dall’alto e squarcia le nubi, in una scena che è strutturata a più piani che si
intersecano in obliquo: l’uomo riverso, la prepotente fisicità del cavallo che
copre i volti in secondo piano di coloro che accompagnano il santo, gli
stendardi romani e le mura di Damasco, le nubi e la luce.
La presenza del cavallo, non attestata nelle Sacre Scritture,
è costante nell’iconografia del Santo, con il cavallo visto da retro, come
avviene anche nella Cappella Paolina affrescata da Michelangelo, o nella tela
di Caravaggio di Santa Maria del Popolo dove la posa dell’animale è più
naturale rispetto alla contorsione forzata a cui ricorre il Borremans. Non è
escluso che nella rappresentazione dell’animale ci sia il riflesso esatto degli
studi che il pittore fiammingo aveva condotto per l’illustrazione della Pietra paragone de’ cavalieri[2] per il duca di Pescolanciano durante il
suo soggiorno a Napoli.
Il confronto più stringente per la posa del Santo, con una
gamba sotto la pancia del cavallo coperto da un drappo rosso, è con dipinti di
Rubens con lo stesso tema, come una “Conversione di Saulo” conservata nella
Casa-Museo del pittore ad Anversa o un’altra variante della Courtauld Gallery
di Londra, entrambe datate al primo decennio del Seicento.
Il modulo compositivo, come accade anche per la chiamata di
Pietro, sembra inoltre ripercorrere “La conversione di Saul” di Luca Giordano,
un dipinto databile al 1680, conservato nella quadreria del Casino dell’Aurora
Pallavicini a Roma, questo con un’orchestrazione più complessa rispetto alla
nostra e certamente più drammatica. Il confronto tuttavia è reso possibile
grazie alla postura di Saul e del cavallo che taglia la scena e che rivela come
Borremans, probabilmente, nell’originale poi ripreso da Arduino, si fosse
ispirato a modelli compositivi che aveva acquisito ad Anversa e a Napoli prima
del suo definitivo trasferimento a Palermo.
Sullo sfondo della caduta si stagliano le mura di una città
turrita, poste in prospettiva ad accentuare l’obliquità del taglio: è Damasco dove
Paolo ”rimase tre giorni senza vedere e senza prendere né cibo né bevanda”.
Nella seconda scena (fig. 2) San Paolo (la fonte è sempre il
capitolo 9 degli Atti degli Apostoli) viene calato giù dalle mura di Damasco
dentro ad una cesta, per sfuggire al complotto dei Giudei che tramavano contro
di lui nell’intenzione di ucciderlo. La cesta, in realtà, è diventata un
lenzuolo con il quale, in posa assai stravagante, il Santo viene calato giù, ma
sembra levitare verso l’alto piuttosto che sentire la forza di gravità. È una
di quelle pose “a capriccio” che rendevano così peculiare l’arte del Borremans
e che Arduino ha ripreso, come l’anfiteatro nello sfondo per rendere lo spazio
della città antica dietro i beccatelli delle mura di Damasco.
Un particolare curioso è certamente legato alla torre: se
nella scena della caduta da cavallo sono presenti i merli, in questa non ve ne
è traccia. I nostri affreschi non hanno, infatti, sfondi urbani o paesaggi
naturali curati nel dettaglio, ma posti soltanto a decoro della scena, a
documentare una stagione artistica in cui l’effetto di sfondamento predomina
sul realismo dello sfondo.
Nel terzo riquadro (fig. 3), sempre opera dell’Arduino, Paolo
è in ceppi dinanzi ad un uomo togato e con eleganti calzari: potrebbe essere il
governatore Felice (Atti, cap. 24), Festo (Atti, cap. 25) o più probabilmente
il re Agrippa (Atti, cap. 26), come dimostra la presenza nella mano sinistra
dello scettro, presso i quali fu costretto a difendersi dopo essere stato messo
in catene a seguito di una sommossa scoppiata a Gerusalemme. È una scena di
taglio dialogico: a Paolo che parla fa da contraltare l’autorità romana seduta
su un trono di taglio barocco, posto su un alto basamento a gradini collocato
in prospettiva. Si scorge un edificio tardo-rinascimentale o seicentesco sullo
sfondo che nulla ha a che vedere con le austere architetture romane, mentre la
colonna scanalata alle spalle dell’uomo ha un drappo alla sommità, secondo il
gusto per il teatro ereditato dalla cultura barocca. La costruzione della
prospettiva e il punto di vista collocato in basso rendono Paolo monumentale
nel suo piglio oratorio, tanto che sulla sinistra viene collocato a bilanciare
la scena un vaso con un drappo.
Nella quarta scena (fig. 4), opera del Borremans, San Paolo è
intento a predicare: tradizionalmente si pensa che sia il momento in cui,
giunto ad Atene, si sia recato sull’Areopago per annunciare Cristo a quegli
uomini che “non avevano passatempo più gradito che parlare e sentir parlare”
(Atti, cap. 17). Ricompaiono i colori smaglianti del fiammingo, a volte anche
poco naturalistici ma sempre coinvolgenti. La scena si distingue dalle
precedenti perché affollata di personaggi, tutti caratterizzati da
abbigliamento contemporaneo e cappelli di ogni foggia: toghe, maniche rigonfie
e a sbuffo, mazzocchi e berrette. Il personaggio sulla sinistra che volge le
spalle allo spettatore ha anche la veste di tessuto damascato. Ma quello che emerge
maggiormente è, sulla destra, un uomo abbigliato come fosse un’autorità con un
berretto scarlatto che tanto somiglia al camauro papale, ma senza ermellino,
che inforca un vistoso paio di occhiali a pince-nez. Nell’agitazione della scena il Borremans ha
voluto distinguere questo dotto con l’aria sdegnata, volendolo caratterizzare
come un sacerdote, forse, e al contempo uno studioso. I sei personaggi che
circondano Paolo, che incede dinamicamente ad indicare l’energia della sua
predicazione, recano rotoli e libri in mano e si mostrano agitati e sdegnosi
nei confronti della sua predicazione. È forse la scena meglio riuscita,
certamente la più vivace, quella che mostra quell’impasto dei colori “a
capriccio” e “differente dal vero”, quelle tinte “manierose, proprie dello
stile fiammengo, ed improprie alla verità”, caratteristiche che sottolinea padre
Fedele da S. Biagio nei suoi Dialoghi familiari sopra la pittura difesa ed
esaltata dal p. Fedele da San Biagio pittore cappuccino col
sig. avvocato d. Pio Onorato (Palermo 1788).
Nel quinto riquadro (fig. 5) il Borremans si ispira al
ventottesimo capitolo degli Atti, là dove si narra che Paolo, sbarcato
fortunosamente a Malta in seguito ad una tempesta, fu accolto dagli indigeni
dell’isola, in anacronistici calzoni sulla sinistra della scena, che per
scaldarlo fecero un falò. Lì una serpe, svegliata dal calore, lo morse ad una
mano ma egli non ne fu avvelenato e la scrollò semplicemente dal dito. Jacopo
da Varagine nella “Leggenda aurea” racconta che il fatto avvenne a Mitilene,
sostenendo che lì la famiglia di colui che lo ospitava fosse rimasta per sempre
immune dal morso dei serpenti. In realtà in Sicilia esiste un culto speciale
per San Paolo come guaritore dal morso di serpenti. tant’è vero che nel passato
coloro che nascevano il 25 gennaio, data della conversione sulla via di
Damasco, potevano divenire “ciarauli”, ossia capaci, secondo le narrazioni del
Pitrè, di maneggiare i serpenti e di guarire i loro morsi.
Anche questa scena è dinamica ed affollata, collocata in uno
spazio naturale roccioso, nel quale i personaggi si muovono con eleganza ed
espressività.
Nel sesto riquadro (fig. 6), un ovale rotondo San Paolo in
catene viene trascinato dai soldati (con le armature di foggia barocca, con
l’evidente anacronismo a cui il pittore ci ha abituati), mentre un uomo si inginocchia
al suo passaggio. Probabilmente il riferimento biblico è all’ultimo capitolo
degli Atti, il ventottesimo, quando Paolo giunge a Roma in catene e viene
salutato dai fratelli al Foro di Appio e alle Tre Taverne, prima di comparire
dinanzi all’imperatore al quale si era appellato.
Anche qui la scena è costruita dinamicamente per l’affollarsi
dei personaggi (ben otto), per il variare delle fogge dei vestiti e degli elmi,
per una lancia che divide lo spazio in due in obliquo. Le pose sono eleganti,
pur nella concitazione, sottolineate dalle movenze delle mani che sono lunghe e
affusolate, secondo quell’eleganza compositiva che è la cifra espressiva del
Borremans.
Il settimo riquadro (fig. 7) è mistilineo e racconta della
decapitazione del Santo sulla via Ostiense, sotto il regno di Nerone, così come
viene narrato da Eusebio e San Girolamo, il quale afferma che Paolo fu
decapitato nello stesso giorno ed anno in cui Pietro fu crocifisso. Il modulo compositivo della decollazione ha un
preciso modello, infatti la posizione del carnefice è identica alla
“Decollazione di San Paolo” (1158-1559) di Taddeo Zuccari nella cappella di San
Paolo della chiesa di San Marcello al Corso. Potrebbe essere questa l’ulteriore
prova di un passaggio del Borremans a Roma[3].
Lasciando la centralità della scena al Santo orante,
illuminato da un fascio di luce che viene dall’alto, quasi a chiudere la
narrazione avviata sulla via di Damasco, il Borremans nella nudità del
carnefice amplifica la crudezza del gesto di sollevare la spada per recidere il
capo, dinanzi al soldato in ricca armatura sulla sinistra e a personaggi oranti
sulla destra. La scena è ambientata in un paesaggio naturale (la via Ostiense)
ed è strutturata su più piani nei quali si avvicendano le figure che fanno da sfondo,
che sembrano progressivamente sbiadire in profondità.
Il capo sembra qui essere protagonista della scena quel capo
che è protagonista del dittico trascritto a San Pietro in Vincoli “Laetus
procubuit Paulus cervice secanda, cui caput est Christus despicit ipse suum”.
Il Santo non teme che gli venga recisa la testa perché riconosce in Cristo il
centro della sua vita, al punto da provare disprezzo per la propria.
Con questa scena, la più drammatica delle sette, il Borremans
chiude la storia del Santo, che tuttavia è solo un punto di svolta per i
trionfi del registro successivo. Non a caso nella parete di fondo della
cattedrale, dove l’architetto Ferrigno aveva creato il suo capolavoro e il
Borremans aveva dipinto l’Immacolata in gloria, incontriamo Paolo ai piedi
della Vergine, con la spada a due tagli, a simboleggiare la parola di Dio che
consente all’uomo di distinguere il bene e il male.
La conclusione della vicenda terrena del Santo, dunque, non è
segnata dal martirio ma dal trionfo che attende coloro che verso Cristo, in
corrispondenza dell’altare, tengono fisso il loro sguardo.
Aurelia Speziale
[1] Tutte le
immagini sono tratte dal volume di AAVV Il
Restauro della Cattedrale di Caltanissetta, Editore Salvatore Sciascia,
Caltanissetta 2001
[2] AAVV, Per Citti Siracusano. Studi sulla pittura
del Settecento in Sicilia. Magika, Messina 2012pp. 39-43 e 51-56.
[3] F.
ABBATE, Storia dell’arte nell’Italia meridionale.
Il mezzogiorno austriaco e borbonico, Donzelli Roma 2009, p. 621
La
Cattedrale di Caltanissetta e l’iconografia di S. Pietro
Da A. Speziale, La cattedrale di Caltanissetta e l’iconografia di San Pietro, in Parrocchia San Pietro, Caltanissetta. Da quarant’anni comunità di battezzati. Caltanissetta, Paruzzo Editore dicembre 2017, pp. 169-179
La chiesa di
Santa Maria la Nova a Caltanissetta, inaugurata nel 1622 e divenuta Cattedrale
nel 1844 con l’istituzione della Diocesi, deve il suo impianto decorativo
all’iniziativa del parroco Agostino Riva che nel 1718 decise di affidare,
grazie ad una generosa offerta di denaro da parte del canonico Raffaele
Riccobene, la decorazione della navata principale al pittore fiammingo
Guglielmo Borremans.
Il progetto del parroco era ambizioso: nei pilastri, ciascuno
dei quali reggeva una statua di apostolo, doveva essere raccontato l’Antico
Testamento, nella volta, invece, il trionfo della Chiesa, attraverso la lotta
vittoriosa della Fede sul Paganesimo, l’Ebraismo, l’Eresia e l’Islam; la gloria
di Cristo fra santi; l’Immacolata
Concezione, con apostoli, patriarchi, profeti, padri e dottori della Chiesa;
l’incoronazione della Vergine tra patriarchi e profeti; l’arcangelo Michele che
caccia Lucifero e fa precipitare i ribelli nell’abisso. Tra i riquadri e in
corrispondenza delle finestre le vele dovevano raccontare storie di santità
legate ai culti locali, mentre tra una vela e l’altra prendevano posto storie
della vita di San Pietro da un lato e di san Paolo dall’altro. Gli spazi erano
stati magistralmente scanditi grazie all’opera dell’architetto Francesco
Ferrigno, anima delle partiture nello spazio.
Il trionfo della Chiesa, dunque, poggia sulla santità di
coloro che hanno guidato nel tempo e nello spazio il popolo di Dio,
orientandolo con la predicazione e con l’esempio, in particolare su Pietro e
Paolo che, pur nella loro diversità, hanno gettato il seme affinché la comunità
dei seguaci di Cristo fruttifichi e si rafforzi.
A sottolineare la pluralità della loro predicazione Pietro e
Paolo si affrontano sui due lati della volta in sette differenti riquadri posti
tra le vele, “dipinture queste”, come afferma il Di Marzo nel 1912, “che per
bellezza del comporre e del colorire son veramente degne del sovrano maestro[1]”.
Bisogna, tuttavia, evidenziare come non tutti i riquadri che
raccontano di S. Pietro sono attribuibili al Borremans, in quanto il tetto
della Cattedrale fu squarciato durante la II guerra mondiale, in occasione
dell’ingresso degli alleati in Sicilia. La copertura, in corrispondenza del
portone centrale crollò, portando con sé i meravigliosi affreschi del
Fiammingo. Per questo motivo le scene della vita di S. Pietro in parte sono da
attribuire a Nicola Arduino, pittore piemontese studioso del Tiepolo, che
seguendo le testimonianze, cercò di ricostruire le scene del Borremans,
cercando di imitarne i colori e le movenze.
L’Arduino cercò di armonizzare il proprio lavoro con
l’originale, raccogliendo tutte le testimonianze possibili per evitare di
allontanarsi troppo dal Borremans. Il pittore tradisce certamente uno stile più
sobrio e lineare e un gusto meno marcato per il colore che in Borremans era,
secondo p. Fedele da S. Biagio, “a capriccio” e “specialmente nelle carnaggioni
differente dal vero[2]”. Gli
manca, in particolare, quel “violetto di Marte” nel quale il Borremans
eccelleva, colore poco naturalistico ma di grande impatto visivo, nel quale il
visitatore della Cattedrale si imbatte con stupore.
Entrando in Cattedrale la prima scena, sulla sinistra,
racconta la vocazione di Pietro ed è opera dell’Arduino (la firma dell’artista
è in basso a sinistra), probabilmente senza i colori smaglianti che dovevano
caratterizzare l’originale. Cristo invita Pietro, accovacciato sulla sua barca,
mentre regge con la mano destra le reti, a seguirlo come “pescatore di uomini”.
Dal punto di vista iconografico il santo è riconoscibile dalla barba, dai
tratti popolani ed è stempiato e sulla barca, icona della Chiesa, mentre regge
le reti. Le vesti sono nei colori tradizionali: il mantello giallo e la tunica
in azzurro.
La composizione è dinamica per la posa del Cristo incedente e
per la presenza dell’albero dell’imbarcazione inclinato e delle nubi
bianco-rosate che agitano un cielo azzurrino.
Il modello compositivo non appartiene né al Borremans né all’Arduino,
ma è rintracciabile in Luca Giordano (“Vocazione dei Santi Pietro ed Andrea” al
Frick Museum di Pittsburgh - https://collection.thefrickpittsburgh.org/objects/37), anche se del Giordano il nostro
attenua le movenze e semplifica il numero delle figure.
La seconda scena, sempre dell’Arduino, racconta della
consegna delle chiavi, secondo la versione dell’evangelista Matteo: “A te darò
le chiavi del regno dei cieli” (Mt 16, 17-19), il testo che sottolinea il
primato petrino che nel periodo della Riforma aveva suscitato tante
controversie. Probabilmente nell’ottica del parroco Riva e del Borremans questa
doveva essere una scena cruciale a sottolineare il primato del Papa e della
Chiesa Cattolica in materia di fede.
Lo sfondo è fortemente classicheggiante, per la presenza di solidi
elementi architettonici, quali colonne ed archi modanati che si stagliano sul
consueto cielo mosso da nubi. Anche qui le pose sono accentuate, gli abiti
mossi, lo sguardo tra Cristo e Pietro intensissimo.
La presenza degli elementi architettonici potrebbe rimandare
al Vangelo di Matteo: “Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia
chiesa”, che spiegherebbe anche perché Gesù stia saldo in cima al secondo dei
due gradini su cui poggiano le figure, mentre Pietro, seppur inginocchiato,
sembra salire dal basso, in una posa innaturale. Si potrebbe leggere la scena
come un’ulteriore sottolineatura del primato della Chiesa Cattolica, che poggia
le sue basi sulla diretta e solida predicazione di Cristo. L’apertura verso lo
spazio aperto sulla destra, che fa da contraltare all’edificio solidissimo
sulla sinistra, crea la percezione interno/esterno che connota la predicazione
della Chiesa Cattolica.
Non mancano due deliziose ghirlande rococò alla sommità della
scena, che forse erano nell’originale del Borremans e che, in ogni caso, lo
rievocano.
Nel terzo riquadro, di forma ovale, Pietro è rappresentato
come pastore di pecore (GV 21,15-17), facendo riferimento anche alla I lettera
che gli viene attribuita. Anche quest’opera è certamente dell’Arduino che la
firma, ed ha come protagonista il Santo con uno sguardo accorto e mite che si
volge verso le pecore, con un gesto che sembra chiamarle a raccolta su uno
sfondo naturale molto poco caratterizzato. Da notare la presenza della ferula,
il bastone che richiama l’asta che adopera il Papa come simbolo della sua
potestà. Il quarto riquadro, riccamente modanato, è opera del Borremans, del
quale si riconosce l’eleganza raffinata nella costruzione delle figure, che
sono mosse e raffinate nelle movenze, flessuosamente atteggiate. Pietro è
addormentato su un basamento in pietra squadrata, poggia la testa sul suo
braccio destro, si allunga obliquamente nello spazio in basso della scena. Se
il suo capo conserva traccia dei tratti popolani (è quasi calvo, con i capelli
rimasti e la barba folti, bianchi e ricci), raffinatissimi sono i particolari:
è elegantemente appoggiato, mani e piedi scalzi affusolati e curati, veste ben
composta. In altro angeli reggono un telone che regge animali.
L’episodio è narrato in Atti degli Apostoli, al capitolo 10:
Pietro sogna un lenzuolo pieno di animali impuri, mentre una voce dal cielo lo
invita ad uccidere e mangiare, perché “Ciò che Dio ha purificato, tu non puoi
più chiamarlo profano”. È l’invito ad accogliere nella comunità dei Cristiani
anche i non circoncisi. Due elegantissimi angeli reggono il lenzuolo, uno dei
quali con la bocca aperta sembra cantare. Mentre l’angelo di destra è vestito,
quello di sinistra si allunga nello spazio esibendo un nudo giovanile molto
bello ed allungato, quasi nelle movenze della danza. La presenza degli angeli è
un tratto costante in S. Maria la Nova, che era dedicata anche a S. Michele,
patrono della città che ha verso l’Arcangelo una speciale devozione.
L’insieme è illuminato dai colori chiari e cangianti che
rendono mosso il cielo e il paesaggio retrostante. Anche qui due ricche
ghirlande con fiori chiari pendono dalle modanature, quasi a sottolineare la
finzione nella rappresentazione, l’effetto scenografico e teatrale.
Nella quinta scena Pietro fugge dal carcere. Il riferimento è
al cap. 12 degli Atti degli Apostoli: i fatti narrati si collocano tra il 41 e
il 44, sotto il regno di Erode, quando si scatenò una persecuzione contro i
Cristiani e fu arrestato Pietro, “consegnandolo in custodia a quattro picchetti
di quattro soldati ciascuno”. Pietro stava dormendo, piantonato da due soldati,
quando comparve un angelo che “toccò il fianco di Pietro”, lo invitò a legarsi
la cintura e mettersi i sandali, avvolgendosi il mantello per seguirlo. La
scena, assai dinamica, ripercorre passo passo il brano del Nuovo Testamento:
Pietro è appena uscito dalla sua cella, viene preso dall’angelo per un lembo della
veste e reca il mantello allacciato e i sandali ai piedi.
L’angelo è un puttino biondo dalla veste svolazzante. Sembra
di sentire quello che padre Fedele da S. Biagio afferma nei suoi “Dialoghi
sopra la pittura”: c’è “qualche scorrezione di proporzione nelle sue figure”,
attribuendogli qualche bizzarria, nonostante la capacità di lavorare con
rapidità ed ingegno. E bizzarri sono certamente i due soldati con elmo e
corazza di taglio anacronistico, in quanto armature a piastra del tempo e non
certamente romane, come si evince in particolare dall’elmo e dagli spallacci,
che assecondano la postura scomposta dei due dormienti.
La calzamaglia e le calzature amplificano la sensazione di
spaesamento, in quanto collocabili in un’altra dimensione temporale rispetto
alla semplicità dell’abito e dei sandali di Pietro.
Altrettanto bizzarra l’architettura isodoma del carcere, in
pietra tagliata, che rivela un’eleganza assai lontana dalle esigenze di un
edificio di detenzione.
Anche qui la fuga sembra avvenire a passo di danza e la
gestualità è sottolineata e innaturale, come innaturale è la veste dell’angelo
che si apre spumeggiante attorno alla figura.
La sesta e la settima scena raccontano della vita di S.
Pietro attingendo alle fonti della tradizione piuttosto che alle sacre
scritture. Gli episodi si collocano a Roma dove la vita del santo si è conclusa
con il martirio.
Il sesto riquadro, dal campo ovale, è stato erroneamente
interpretato come il battesimo del centurione Cornelio, ma in realtà si
riferisce alla conversione dei santi Processo e Martiniano per i precisi
riferimenti iconografici presenti nella scena.
Il santo è in catene e dunque l’ambientazione coincide con il
carcere Mamertino (o Tullianum), dove la tradizione vuole che Pietro sia stato
tenuto prigioniero a Roma. Capiamo che si tratta del carcere in questione dalla
presenza della sorgente d’acqua che sgorga dentro la prigione, in quanto la
tradizione attribuisce a Pietro il miracolo della fonte, nel momento in cui i
suoi due carcerieri si convertono e il battesimo può avvenire. I due poi
chiedono a Pietro di fuggire dicendogli: “O Signore, vai dove vuoi, giacché noi
pensiamo che ormai l'imperatore si è dimenticato di te” (...) Dopo che nel
carcere Mamertino tu ci hai battezzati nel nome della Trinità Santissima,
facendo sgorgare una fonte dalla rupe, con la preghiera e il segno della croce,
tu sei andato liberamente dove hai voluto e nessuno ti ha molestato».
L’indice di Pietro rivolto verso l’esterno può indicare la
volontà di Pietro di recarsi fuori dal carcere, inizialmente per allontanarsi
da Roma dove, sulla via Appia, incontrerà Cristo a cui chiederà “Domine, quo
vadis?”, episodio che lo condurrà nuovamente nella capitale dell’impero per
subire il martirio. La storia è narrata dal “Martyrium Beati Petri Apostoli”
dello Pseudo-Lino.
L’ultima scena racconta del martirio ed è stata costruita iconograficamente
sulla scorta de “La crocifissione di Pietro” di Luca Giordano (Venezia, Gallerie
dell’Accademia), un dipinto datato al 1660 che Borremans rievoca nella
posizione fortemente obliqua della croce, con la presenza sulla sinistra del
carceriere che tira la fune, con il soldato sulla destra in armatura
contemporanea. La presenza degli angeli, attestata dal racconto dello
Pseudo-Lino, che il Giordano collocava a riempire il cielo fosco di nubi, qui
sembra evocata da un personaggio che si incunea in modo poco naturale tra la
croce e il carceriere. Dal cielo luminosissimo vengono emessi raggi di luce.
Anche qui troviamo il bizzarro anacronismo del soldato portabandiera e la
presenza delle due ghirlande a chiudere la scena cadenti dalla sommità delle
modanature.
La drammaticità si stempera anche nelle figure dei due bruti
carcerieri che, pur con vesti da lavoro ed in evidente condizione di fatica,
non riescono a rendere appieno la tragicità del momento, dinanzi alle vesti
svolazzanti e ben composte e alla gestualità sempre contenuta ed elegante di
Pietro. Il “tocco seducente” di cui parla il Di Marzo non viene meno neanche
nelle rappresentazioni più tragiche e mosse.
Aurelia Speziale
[1] Per una
panoramica completa dei lavori di Gioacchino Di Marzo su Borremans si consiglia
una visita al sito http://www.casateatromassimo.it/vivapalermo/BorremansOnLine/index.html
[2] Dialoghi
familiari sopra la pittura difesa ed esaltata dal p. Fedele da San Biagio
pittore cappuccino col sig. avvocato d. Pio Onorato... (Palermo 1788), dedicati
al duca d'Angiò, 1788 - Giorno
decimoquarto
La Vergine del Carmelo con i profeti Elia ed Eliseo e i Santi giovanni Battista, Stefano, Francesco di Assisi e Luca Evangelista
di Filippo Paladini
Il dipinto (firmato e datato sul libro: FILIPPO PALADINI FIORENTINO PINGEBAT 16..4) si trova nella chiesa di Santa Maria La Nova ma è proveniente dalla chiesa del Carmine. E' forse identificabile con quella pregevolissima “tela della Madonna del Carmelo coi santi Simone Stochio, Stefano e l’Evangelista S. Luca del Facciponte”, sita nella chiesa di Maria SS. Annunziata.
Nel dipinto lo spirito è devozionale ed è presente la fedeltà estetica alla cultura dello Studiolo fiorentino, specie attraverso la modulazione plastico-luministica delle figure, di spirito e sensibilità nuova.
Nella risonante dialettica di luce ed ombra delle sue pieghe, in cui chiaramente prevale la luce, così come su tutto prevalgono la fede e la grazia nelle epiche lettere dell’Apostolo di Tarso.
Con probabile riferimento a questa tela vi è un disegno di un noto taccuino siracusano e precisamente una figura virile in piedi con doppio profilo di testa.
Redatto da: Egle Salamone
Nella risonante dialettica di luce ed ombra delle sue pieghe, in cui chiaramente prevale la luce, così come su tutto prevalgono la fede e la grazia nelle epiche lettere dell’Apostolo di Tarso.
Con probabile riferimento a questa tela vi è un disegno di un noto taccuino siracusano e precisamente una figura virile in piedi con doppio profilo di testa.
Redatto da: Egle Salamone
Fonte: AAVV, La pittura nel nisseno dal XVI al XVIII secolo, Salvatore Sciascia 2001
Iscriviti a:
Post (Atom)